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Sa Die e il protagonismo popolare

de Omar Onnis

A fine ottobre 1812 fu represso a  Cagliari l’ultimo tentativo di sollevare la Sardegna contro il regime feudale e la monarchia sabauda. Sono i fatti passati alla storia come la “congiura di Palabanda”. Tra i protagonisti, il conciatore Raimondo Sorgia, stampacino. Il suo nome ricorre nelle cronache del tempo da quasi un ventennio. Era già stato tra i protagonisti della giornata del 28 aprile 1794 e del successivo “scommiato” dei Piemontesi.

Sorgia è una figura emblematica di quella lunga serie di eventi che per comodità riassumiamo col nome di Sarda Rivoluzione. Un popolano, ma anche un rappresentante di quel mondo abbastanza sommerso delle arti e dei mestieri che faceva capo ai gremi e alle loro attività. Sorgia apparteneva a quel ceto semi-istruito che aveva relazioni eterogenee con diversi strati sociali della comunità cagliaritana del tempo.

È lo stesso ceto a cui con ogni probabilità si deve la capacità di mobilitazione e di organizzazione che vediamo all’opera, senza sapere bene da dove spunti, nei preparativi della sommossa del 28 aprile 1794 e nel suo effettivo svolgimento, così come nei fatti dell’estate 1795 (assassinio di Girolamo Pitzolo e poi di Gavino Paliaccio marchese della Planargia) e in altre circostanze ancora. Il giorno della partenza del viceré e di tutta la corte piemontese, ai primi di maggio del 1794, quando la folla inferocita mostrava di voler bloccare il convoglio di carri carichi di bagagli da imbarcare, i racconti dei testimoni indicano un beccaio (un macellaio), Francesco Leccis, come colui che evitò che la situazione degenerasse in una disordinata, e quasi sicuramente sanguinosa, aggressione.

Anche in questo caso, un esponente di quella medesima compagine sociale a cui apparteneva Raimondo Sorgia. Uno degli aspetti notevoli delle vicende rivoluzionarie sarde, al di là del loro esito, è proprio la larghissima partecipazione di tutti gli strati sociali, sia nelle città sia nelle campagne. Un protagonismo popolare che ai nostri occhi non suona così stupefacente come risultava allora. Le cronache del tempo faticano a contenere la sorpresa, o lo sgomento, a tratti persino il disgusto, per tale protagonismo di personaggi e gruppi di bassa estrazione.

Una delle accuse rivolte a Giovanni Maria Angioy era anche quella di aver in qualche modo tradito la sua appartenenza sociale per circondarsi di gente di bassa lega, assecondandone (o, secondo alcuni, sollecitandone) gli istinti peggiori. Naturalmente era un’accusa infondata. Quale che fosse la forza della leadership di Angioy, è noto che in realtà chi aveva la guida dei vari gruppi che si muovevano nello scenario sardo di quegli anni erano personaggi diversi, non di rado sacerdoti, a volte esponenti del ceto intellettuale e delle professioni, e infine, appunto, membri delle organizzazioni corporative e delle confraternite.

Tali corpi intermedi della società sarda di allora facevano da raccordo tra il popolo minuto delle città e delle campagne e i gruppi dirigenti. È un fatto che accomuna gli eventi sardi a quelli più noti della Francia e ad altre vicende analoghe. Ed è un tratto estremamente significativo di questo lungo periodo – un ventennio – in cui in Sardegna migliaia e migliaia di persone, spesso mettendo in gioco tutto ciò che avevano, provarono a prendere in mano il proprio destino collettivo per mutarne il senso.

Molti pagarono un prezzo altissimo, per questo. Ciò che oggi disturba i ceti dirigenti sardi, sia in politica, sia nel mondo degli affari (più o meno trasparenti) ad essa legato, sia nell’ambito intellettuale organico alle istituzioni (quello con voce in capitolo nei mass media) è da un lato il protagonismo popolare e dall’altro la constatazione del tradimento proprio dei gruppi dirigenti sardi di allora. In quegli anni si verificò una saldatura tra gruppi sociali diversi, tra istanze urbane e malumori rurali.

Una parte della classe dirigente sarda fece una scelta di campo radicale, pronta a rovesciare l’ordine costituito in nome di valori di giustizia e diritti e, insieme, di dignità collettiva del popolo sardo. Tutto questo è di per sé un atto d’accusa verso la politica e in generale i gruppi dirigenti di oggi. Non a caso il ricordo della Sarda Rivoluzione e le celebrazioni del 28 aprile sono così negletti e mal considerati nel Palazzo e da tutto ciò che ruota intorno al potere in Sardegna.

Ma, se vogliamo, proprio questo è uno dei migliori motivi per ostinarci a rievocare il 28 aprile, gli avvenimenti connessi e tutti i personaggi che ne furono protagonisti. In una Sardegna tutt’ora piegata sotto il giogo di una subalternità e di una dipendenza crescenti, esposta a mire speculative e a intenti rapaci di ogni tipo, con la complicità di gruppi dirigenti imbelli, egoisti e di scarsissima levatura morale e politica, suona disturbante – sanamente disturbante – richiamare momenti in cui il popolo non restò silente e chi aveva mezzi intellettuali le capacità di mobilitazione non li spese per il proprio vantaggio personale ma in nome di un progresso collettivo.

È precisamente questo il senso di Sa Die ed è il motivo per cui continueremo a celebrarla, fino a farne non il ricordo di una possibilità frustrata ma una conquista storica realizzata.


Immagine: manifestosardo.org

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