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Zone umide della Sardegna, scrigno di biodiversità

Dai tempi delle grandi bonifiche il nostro pianeta ha perduto oltre la metà delle sue zone umide o Wetlands. Ecosistemi unici che giocano un ruolo importante per mitigare le conseguenze del cambiamento climatico. Parliamo di saline, lagune, delta, laghi artificiali, stagni, paludi, foreste di mangrovie, oasi, risaie, bacini acquiferi. 

Se in passato si ritenevano zone pericolose per la salute dell’uomo, adesso sono considerati ecosistemi preziosi e necessari. Non solo hanno la capacità di assorbire grandi quantità di gas serra, ma fanno da cuscinetto contro l’erosione delle coste e l’innalzamento del mare, proteggendo così le riserve d’acqua dolce; mantengono il suolo fertile; la ricchezza di biodiversità le rende zone di nidificazione e rifugio per le specie migratorie.

In questo momento in cui ci rivendono come Green un’operazione con cui vogliono deforestare la Sardegna, più che mai abbiamo bisogno di consapevolezza. E la consapevolezza passa per l’informazione. E’ con questo intento che un gruppo di giornalisti ha deciso di raccontare le zone umide più importanti del nostro Paese, un’inchiesta intitolata “Wasted Wetland” (zone umide perdute) unendo informazioni storiche, reportage sul campo e dati scientifici. La speranza è che un giorno possano chiamarsi zone umide ripristinate

Sa Salina Manna – Putzu Idu – foto di Barbara Ranghelli

Sono partiti dalla Sardegna. Perché proprio da qui?

Oltre ad avere un’alta concentrazione di wetlands, ne ha anche diverse varietà.

Sul territorio italiano la Sardegna detiene il più alto numero di zone umide riconosciute a livello internazionale (Convenzione di Ramsar): 9 siti su 57, di cui sei sono a Oristano, due a Cagliari e uno a Nuoro.

In verde i 2.567 siti MedIsWet (dati di Mauro Fois) e in azzurro i 9 siti Ramsar

L’inchiesta, come spesso accade, ha portato allo scoperto ricerche inedite dai risultati straordinari. Una mappatura, realizzata nell’ambito di un progetto internazionale e che combina dati satellitari e osservazioni sul campo, ha riportato ben 2.567 zone che possiedono le caratteristiche specifiche delle wetlands. E i rilevamenti sono in continuo aumento. 

Laguna di Marceddì – foto di Barbara Ranghelli

Questi ambienti, che non sono comunque facili da definire, si distinguono per categorie. E anche su questo fronte la Sardegna offre un territorio dalle molteplici caratteristiche. Se uno degli indicatori principali per localizzare siti Ramsar è la presenza di animali volatili – per cui si concentra necessariamente l’attenzione sulle zone costiere – qui troviamo anche piccoli invertebrati e anfibi, fauna altrettanto importante per la salute delle zone umide. Un esempio è l’altopiano della Giara. Conosciuto per il caratteristico cavallino, ha un terreno argilloso la cui impermeabilità, in alcuni periodi dell’anno, crea dei ristagni d’acqua. Questa caratteristica inserisce la Giara nella categoria degli stagni temporanei.

Riconoscere il valore di questi, “scrigni o ambienti unici, per colori, suoni, luce, vita”, permette a ognuno di noi di avere più consapevolezza e quindi cura dell’ambiente che ci circonda.

Negli ultimi anni le istituzioni stanno prendendo sul serio la questione ambientale con convenzioni, protocolli e risoluzioni. Le Nazioni Unite nel 2022 hanno inserito il “diritto a un ambiente pulito e sano” nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Ma nulla di giuridicamente vincolante. Solo l’iniziativa di ogni singolo individuo può fare la vera differenza per proteggere e valorizzare la nostra Terra. “Non è più una questione solo ambientale. È una questione di sopravvivenza” si legge nella ricerca pubblicata di recente.

A questo link si può accedere alla ricerca “Wasted Wetlands. Zone umide, il patrimonio nascosto della Sardegna” a cui l’articolo fa riferimento, completa di interviste, dati scientifici e lista delle Convenzioni.


Foto di copertina: Stagno di S’Ena Arrùbia – Arborea – foto di Barbara Ranghelli

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