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Una Repubblica dimezzata

De Francesco Casula

Domani 2 giugno si festeggia la proclamazione della Repubblica.

Deve essere chiaro: la cacciata dei tiranni sabaudi è un’ottima notizia, soprattutto per i sardi. Sardi che hanno subito sulla loro pelle una politica funesta di oppressione, ben più degli altri popoli italici, avendone patito la presenza fin dal 1720. E sanno dunque per lunghissima esperienza “di che lacrime grondi e di che sangue” la loro tirannia.

Ma si tratta di una Repubblica dimezzata per una serie plurima di motivi. Ne tratteggio almeno tre:

  1. Simbolicamente i Savoia (con i loro famigli, amici e pretoriani) continuano a “regnare, segnando e marcando il nostro territorio: con le Vie, le Piazze, le Scuole a loro dedicate. Continuano a “dominare” con le loro statue che ci avvertono, dall’alto del piedistallo, che noi sardi siamo sudditi e loro, sovrani.
  2. Tutto l’armamentario legislativo della Repubblica è ancora infarcito e “popolato” dalla vecchia legislazione monarchica, o addirittura fascista, zeppo com’è di norme che risalgono a quel periodo infame. In un perfetto continuismo, culturale ancor prima che giuridico. Cui occorre aggiungere tutta l’impostazione della stessa Costituzione repubblicana incentrata sul “centralismo” del leviatano statuale e su un articolo liberticida, come il quinto, sulla “Repubblica una e indivisibile”.
  3. Ma l’elemento di “continuità” ancor più odioso, almeno a livello simbolico e politico-culturale è l’eredità dell’Inno “Fratelli d’Italia, non solo tipicamente monarchico ma con abbondanti elementi fascisti, in relazione soprattutto alla cosiddetta “romanità”.

Un Inno brutto, bellicista e guerrafondaio, militarista e militaresco. Ultraretorico. Che riassume una “storia” falsa e falsificata:

“Dall’Alpe a Sicilia dovunque è Legnano;
ogn’uom di Ferruccio ha il core e la mano;
i bimbi d’Italia si chiaman Balilla;
il suon d’ogni squilla i Vespri suonò”.

Di grazia che c’entrano con l’Italia, il suo “Risorgimento”, la sua Unità, i combattenti della Lega lombarda, i Vespri siciliani, Francesco Ferrucci, morto nel 1530 nella difesa di Firenze; Balilla, ragazzino che nel 1746 avvia una rivolta a Genova contro gli austriaci?

E’ stata questa la versione distorta e falsificata della storia italica offerta e propinata dai leader e dagli intellettuali nazionalisti dell’Ottocento, di cui un secolo di ricerca storica ha preso a roncolate mostrando l’infondatezza di tale pretesa. Anche perché non la puoi dare a bere a nessuno l’idea che questi «italiani» fossero buoni, sfruttati e oppressi da stranieri violenti, selvaggi e stupratori, stranieri che di volta in volta erano tedeschi, francesi, austriaci o spagnoli.

Ma quello che maggiormente disturba – dicevo – è la vomitevole “romanità” di cui è impastato:

“Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta;
dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa”.

Romanità, non a caso, sposata e celebrata dal Fascismo, dal cui mito fu animato fin dalla primavera del 1921 quando Mussolini lanciò l’iniziativa di celebrare il Natale di Roma il 21 aprile di ogni anno e nel novembre di quell’anno, nello statuto del neonato Pnf, i fascisti definirono il partito come una milizia al servizio della nazione. Mutuando da Roma le insegne, come i gagliardetti con il fascio e le aquile, e il gesto di saluto con il braccio teso.

Scrive Mussolini:

”Celebrare il Natale di Roma significa celebrare il nostro tipo di civiltà, significa esaltare la nostra storia, e la nostra razza, significa poggiare fermamente sul passato per meglio slanciarsi verso l’avvenire. Roma e Italia sono due termini inscindibili. […] Roma è il nostro punto di partenza e di riferimento, il nostro simbolo, o se si vuole, il nostro mito. […] Molto di quel che fu lo spirito immortale di Roma risorge nel fascismo : romano è il Littorio, romana è la nostra organizzazione di combattimento, romano è il nostro orgoglio e il nostro coraggio: Civis romanus sum” !1

Ma il nucleo più forte che il fascismo mutuò dalla “romanità” fu il mito dell’impero che sembrò realizzarsi con la conquista dell’Etiopia il 9 maggio 1936, tanto che Mussolini dichiarò dal balcone di palazzo Venezia che l’Impero era tornato sui «colli fatali» di Roma, con il ritorno in Italia delle immagini della romanità e della missione gloriosa di del caput mundi.

Con il Duce celebrato come «il novello Augusto della risorta Italia imperiale», «un genuino discendente di sangue degli antichi romani». Lo testimoniava – secondo l’archeologo Giulio Quirino Giglioli – l’origine romagnola di Mussolini il quale «era degno emulo di Cesare e di Augusto perché artefice di una nuova era della romanità nell’epoca moderna». Altri noti studiosi si impegnarono nel sostenere l’identità fra il duce del fascismo e gli imperatori romani, o anche a dimostrare la superiorità di Mussolini su Cesare o su Costantino.

Amen!


  1. Benito Mussolini, «Passato e avvenire», Il Popolo d’Italia, 21 aprile 1922, p. 1.
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