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Super Lega e autodeterminazione dei popoli. Siamo sicuri che il problema sia lo sport?

De Carlo Sanna

Tranquilli, non ho nessuna intenzione di calarmi nella querelle del momento, di sicuro non con i toni del censore. Anche perché io sono a favore della libera attività di impresa. Pur essendo cresciuto in un paese che mi ha insegnato a demonizzare chi vive e guadagna del proprio lavoro, questa società malata di parassitismo non è riuscita a farmi credere che nella vita non ci sia niente di meglio per un uomo che impegnarsi per realizzare il proprio desiderio.

Dopo un anno di lockdown e privazioni di qualsiasi genere credo inoltre che il Governo e il Parlamento della Repubblica italiana siano i soggetti meno indicati per tutelare un mio diritto, soprattutto quello all’integrità psicofisica. Non mescolerò aspetti economici e questioni moraleggianti, le lascio volentieri alla banalità del male della stampa italiana. Argomenterò altro, provando a spiegare perché la faccenda abbia potenzialmente una portata rivoluzionaria sulla quale dovremmo riflettere. Voglio parlare di Sport e diritto di autodeterminazione dei popoli utilizzando l’esempio calcistico e la querelle di questi giorni per spostare leggermente il focus su un argomento che apparentemente sembra slegato dalla vicenda Super Lega.

Sono un nazionalista sardo, un diseredato dello sport per eccellenza. Mi viene negata la gioia di tifare per quella che sento la mia squadra del cuore, quella che rappresenterebbe la mia terra, vilipeso perché la mia Nazione, la Sardegna, non potrebbe giocare contro le Nazionali “vere” ossia quelle squadre che fanno capo ad uno Stato, le uniche che secondo le regole potrebbero contendersi i campionati del Mondo.

Già, ma chi le ha scritte queste regole? Chi l’ha deciso che siccome sono nato per sbaglio in un periodo in cui la Sardegna è un possedimento dell’Italia, la “Statale” italiana debba essere per forza la Nazionale che fa battere il cuore di un sardo?
Manco a dirlo, gli estensori di queste regole, inaudita altera parte, sono gli stessi soggetti istituzionali che in questi giorni gridano allo scandalo per la nascita della Super Lega. Sono coloro i quali vogliono negare a un gruppo di imprenditori di svincolarsi da leghe e organizzazioni Statali e organizzarsi come meglio credono per trarre un profitto, soddisfacendo una domanda di mercato che loro credono di intercettare, se a torto o a ragione non ci interessa.

Sì, dico mercato, perché lo sport professionistico non è altro che business, governato da regole di domanda e offerta e da una marea di denari e non è di certo J.P. Morgan che può intaccare la possibilità dello Stato di insegnare ai giovani il valore del merito sportivo attraverso l’educazione, non è il famigerato Florentino Perez, o la dinastia Agnelli che remano contro la diffusione dei play ground in Sardegna o nelle scuole italiane, non è la nascita di una lega privata di professionisti che svilisce il nobile senso di una competizione sportiva, o inaridisce l’animo di giovani sognatori.

Lo sa bene la FIGC, lo sa bene l’UEFA, la FIFA e lo sanno i burocrati che, pagati coi nostri soldi, si occupano di fare cose che nessuno di noi gli ha mai chiesto, impegnati di volta in volta nell’architettare regolamenti astrusi, nominare vertici politicizzati, contraffare sorteggi e organizzare manifestazioni secondo regole speculative dettate da questioni di opportunità burocratica quando non di mera geopolitica, vedi la vergognosa assegnazione degli ultimi mondiali di calcio in Qatar

Insomma, queste organizzazioni si occupano del lavoro sporco che la prassi della mitopoiesi statale richiede, il controllo delle pulsioni sociali delle masse che si pretende di irregimentare. D’altronde, nessuno può negare che l’ultimo baluardo di italianità sia la Coppa del Mondo del 2006, che per lo Stato italiano ha il valore simbolico dell’11 Settembre per gli Stati Uniti. Oltre l’immagine di Grosso che corre come Tardelli non resta niente di uno Stato che si finge Nazione. Oltre la vittoria di una competizione sportiva, organizzata dai detentori della forza militare nel Mondo, non esiste alcun coagulo sociale e l’impresa sportiva prende il posto nell’immaginario collettivo di una vittoria in battaglia, tutti elementi essenziali per costruire a tavolino un senso d’appartenenza che però si fonda sull’esclusione del prossimo più che sulla celebrazione dell’unità di intenti nell’impresa.

Ma intendiamoci, non è una cosa che riguardi la sola Italia, è una metastasi che si espande in tutto lo scenario sportivo mondiale, gestito ai massimi livelli secondo uno schema politico illiberale e antidemocratico, strutturato per difendere l’egemonia degli Stati ottocenteschi dagli attacchi della democrazia.

Basti pensare alla vergognosa partita del primo Aprile 2021 per la qualificazione ai Campionati Mondiali fra Spagna e Kosovo. La Spagna non ha mai riconosciuto ufficialmente la piccola repubblica indipendente del Kosovo nata nel 2008, cosicché non solo il nome della nazionale balcanica non appariva in maiuscolo durante la partita ma ai telecronisti spagnoli ed ai giornalisti è stato vigliaccamente imposto di non utilizzare la parola “Kosovo” durante le interviste. 
Questo perché lo sport è politica. E più uno sport è di massa, più l’arma politica risulta potente. L’esempio della dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo, che ha meno abitanti di Barcellona, fa tremare i polsi allo stato spagnolo impegnato da anni nella vergognosa repressione delle istanze democratiche catalane, basche, galiziane. Legittimare pubblicamente l’esistenza del Kosovo significherebbe per un certo qual verso assecondare le istanze democratiche dei separatisti che la Spagna non esita ad incarcerare nel totale silenzio della Comunità Europea e degli stati che ne fanno parte. E poco importa lo sgarbo istituzionale quando di mezzo c’è il feticcio religioso dell’indivisibilità di uno Stato che pretende di opporre la sua natura anti-democratica al trascorrere inesorabile del tempo.

Siamo sicuri che lo Stato debba essere l’unico soggetto legittimato a gestire le competizioni sportive? Siamo sicuri che gli Stati facciano i nostri interessi, sempre e comunque? Io ne sono sempre meno convinto e l’idea che qualcuno si ribelli a questa egemonia non mi dispiace per niente.
Se consideriamo che nella storia dell’uomo le pulsioni economiche, gli interessi dei privati, hanno sempre orientato e cadenzato cambiamenti epocali, non dovremmo poi meravigliarci molto dell’affare Super Lega, che altro non è che il contrasto fra ricchi cittadini che si organizzano per contrastare il potere centralizzato e lo Stato. Del resto chi di noi non si ribellerebbe se avesse la forza e la sicurezza di poter contrattare con lo Stato, che Bastiat definiva come “l’organizzazione monopolistica dell’esercizio arbitrario della violenza”.

Che lo sport sia politica non dovrebbe sorprendere nessuno. In Sardegna ne parla da anni proficuamente il politologo Carlo Pala, che indaga esplorando la relazione fra esercizio della forza statale e mitopoiesi sportiva. Emblematica è stata la nascita della FINS Federazione Isport Natzionale Sardu che si propone di dare voce a chi, come me, vorrebbe semplicemente poter tifare la propria Nazionale in una competizione sportiva. Infatti non si capisce perché se negli “sport minori” la Nazionale Sarda compete alla pari contro tutte le altre nazionali del Mondo, non lo possa fare nei circuiti ufficiali degli “Sport maggiori” come calcio, tennis, basket, dove vige il divieto d’accesso per tutti i popoli che per un motivo o un altro non vantino ancora una Costituzione.

Ecco perché personalmente sono del tutto favorevole all’iniziativa di una super-competizione gestita da privati che si propongono di fare utili dando il meglio di se a un pubblico entusiasta che si vuole godere lo spettacolo ed é disposto a pagare. Perché non ha nulla a che vedere con lo sport ma riguarda la libertà di impresa che è un diritto politico che gli Stati possono regolare ma non devono poter intralciare. L’azione di questi imprenditori sta scoprendo il nervo di una questione che va ben oltre l’ambito nel quale i rappresentanti degli Stati pretendono capziosamente di circoscriverla. L’azione di questi imprenditori è un gesto politico di fortissima ribellione, molto più impattante di qualsiasi indignazione sociale che si riduce in un richiamo al rispetto di regole del tutto arbitrarie, decise da soggetti burocratici del tutto autoreferenziali che si dibattono come animali feriti a morte.

Siccome non mi va nemmeno di passare per romantico sprovveduto, è logico che gli imprenditori agiscano solo per tornaconto personale e non per restituire la libertà a noi comuni mortali ma l’eterogenesi dei fini che regola il frutto delle azioni umane apre sempre scenari inaspettati, ben oltre il volere degli attori in campo. Pensate un po’ cosa potrebbe succedere se davvero gli Stati si coalizzassero contro le squadre e i giocatori della Super Lega fino a impedire, come ventilato in questi giorni, la loro partecipazione alle competizioni internazionali.

Prima di tutto mi chiedo a chi gioverebbe la scelta arbitrariamente punitiva di escludere alcuni giocatori in ragione di un contratto che li vede impegnati a prestare la propria opera presso un datore di lavoro che ha l’unico difetto di non essere gradito ai burocrati statali. Sarebbe una scelta tanto ingiusta quanto scellerata che andrebbe a deprimere irrimediabilmente la qualità di una competizione, riverberandosi negativamente sull’audience, sui diritti TV, sull’affezione dei tifosi, ingenerando azioni e reazioni del tutto imprevedibili, la cui portata realisticamente si ritorcerebbe proprio contro gli Stati organizzatori, più che contro gli imprenditori e professionisti ribelli, che potrebbero perfino organizzare un contro-mondiale di calcio oltre le regole Fifa. Chi potrebbe impedirglielo?

Insomma, per un nazionalista negletto come me, senza alcun interesse oltre quello strettamente romantico/sportivo, l’idea che gli Stati ottocenteschi perdano potere nella organizzazione di eventi sportivi internazionali credo sia una prospettiva del tutto auspicabile, un qualcosa che mi fa davvero ben sperare per l’avvenire.
Se oggi, per esempio, la Federatzione Isport Natzionale Sardu chiedesse alla Fifa la registrazione de saNatzionali sarda, lo Stato italiano, forte del suo potere politico e della sua influenza sulle istituzioni internazionali, riuscirebbe a impedire l’ingresso alla mia squadra; così come si opporrebbe la Francia alla richiesta della Corsica, la Spagna alla richiesta della Nazionale catalana/basca/galiziana. E, di fatto, sempre per gli stessi motivi meramente politici sono escluse e marginalizzate decine di squadre in tutto il Mondo.
Vi sembra una cosa giusta? Vi sembra che tutto questo abbia a che fare con i valori dello sport che gli Stati e le loro organizzazioni dicono di voler tutelare?

Ecco fratelli miei sardi: se ancora non riuscite a rispondere a questa domanda ve ne faccio un’altra. Ma prima… immaginatevi la Sardegna Arena come la Bombonera, con migliaia di 4 Mori che sventolano, migliaia di cuori che palpitano: si gioca Sardegna – Italia per la qualificazione ai Mondiali, l’odore forte del mare, la Sella del Diavolo, un fenicottero che torna a casa.
Ditemi: voi per chi tifereste? Per chi ribollirebbe il vostro sangue di sardi? Da che parte vi siedereste?
Io non ho dubbi.

Fintzas a s’indipendèntzia, fintzas a sa Repùblica de Sardigna.
Sa die nostra at a bènnere e sa Natzionali puru.

Foto: autore

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