Si riparla di legge elettorale sarda
Riemerge, ad opera dei comitati e dei cittadini che hanno sostenuto la proposta di legge popolare Pratobello24, la questione della legge elettorale regionale. Un tema importantissimo ma che diventa caldo solo in prossimità del voto. Oggetto di dibattito e di promesse, è poi regolarmente dimenticato dal consiglio regionale di turno e dalle varie giunte succedutesi in questi undici anni.
La legge elettorale sarda è una delle più restrittive e antidemocratiche dell’intera Europa. Premia le grandi ammucchiate elettorali, a vantaggio dei partiti maggiori, ossia dei franchising politici italiani in Sardegna, e delle consorterie locali che al loro interno muovono i propri pacchetti di voti clientelari. Premia anche il trasformismo e l’opportunismo di partitini personali o familiari, senza altro scopo che perpetuare la propria presenza nelle istituzioni o nel sottobosco degli enti pubblici e parapubblici.
La soglia del 10% per le coalizioni di liste e del 5% per la singola lista sono aberranti in una situazione in cui la rappresentanza democratica e territoriale è già pesantemente lesa dalla riduzione a 60 dei consiglieri regionali.
Ricordiamo anche questa trovata, concepita dai Riformatori sardi insieme all’abolizione delle province (poi abolite solo nei loro elementi democratici) come misura “anti-casta”, rivelatasi poi, come del resto si prevedeva, del tutto funzionale proprio alla stessa casta (di cui i Riformatori, per tanti versi, sono esempio da manuale).
Tanto più è sacrificata la rappresentanza democratica, quanto più è evidente, da molti anni, che l’arco di sensibilità politiche espresse dalla cittadinanza sarda non si esaurisce certo nel pasticciato duopolio all’italiana (ma in salsa sarda) che domina la scena. Dal 2014 al 2024, in tre elezioni regionali consecutive, decine di migliaia di voti regolarmente espressi sono rimasti senza alcuna corrispondente presenza nella massima assemblea politica sarda. A ciò si aggiunge l’ormai endemico astensionismo, altro segnale della mancanza di connessione tra la politica di Palazzo e l’elettorato.
La raccolta di firme a sostegno della legge Pratobello24 dimostra che non tutto l’astensionismo è dovuto a menefreghismo e rassegnazione. Se c’è da mobilitarsi, la popolazione sarda, come successo in tante altre circostanze della nostra storia contemporanea, lo fa e spesso con vigore e spirito di collaborazione. La cittadinanza isolana è tutt’altro che passiva, accidiosa, ignorante, se sente che il proprio impegno civico ha un senso. L’atteggiamento paternalistico espresso sovente dal Palazzo verso queste mobilitazioni (tipo il “i legislatori siamo noi” della presidente Todde, e analoghe esternazioni sue e di altri esponenti dei due poli dominanti) è solo l’altra faccia del cinico distanziamento sociale (in senso vero) tra la politica politicata e la vita reale delle persone e delle comunità dell’isola.
Un po’ di storia, tanto per cambiare
La chiusura oligarchica è una caratteristica diffusa delle democrazia liberali odierne, benché articolata di volta in volta in modo peculiare nei vari paesi. È un portato storico della lunga reazione anti-democratica innescatasi negli anni Settanta del secolo scorso nel cosiddetto Occidente. Il restringimento di fatto e a volte di diritto delle potestà di controllo delle assemblee legislative, la progressiva attribuzione di sempre maggiore centralità agli esecutivi, la riduzione costante della partecipazione popolare sia a livello di militanza diffusa sia a livello di voto, l’infotainment come modalità ordinaria di comunicazione anche istituzionale e le dinamiche sociali consumistiche, egoistiche, disgreganti indotte dall’egemonia culturale neo-liberista hanno ormai prodotto un profondo vulnus nel meccanismo della democrazia rappresentativa. Nella sub-provincia sarda della provincialissima Italia, in una condizione molto prossima, per tanti aspetti, a una realtà coloniale, questo processo storico ha prodotto un effetto deleterio sul già debole tessuto civile dell’isola.
L’autonomia, mai particolarmente efficiente, ha mostrato tutti i suoi limiti negli ultimi trent’anni, dopo il mutamento ulteriore dovuto alla fine della Guerra fredda. L’adattamento della politica sarda è stato abbastanza rapido, con l’accentuazione del suo ruolo di intermediazione, il trionfo definitivo delle consorterie più o meno palesi, i ricatti incrociati, la costante bulimia di risorse pubbliche dei tanti cacicchi e capibastone e le loro relative clientele. La società civile non è stata in grado di opporsi a questa deriva, soprattutto nella sua componente intellettuale e accademica, succube verso l’egemonica organizzazione del sapere italiana, subalterna in termini teorici e politici, organica al modello di potere familistico e cinico imperante.
In tale scenario, nel 2013, accaddero due fatti che misero in allarme tale blocco sociale e politico. Nelle elezioni politiche dell’inverno ci fu un’affermazione abbastanza clamorosa del Mov. 5 stelle e nella primavera emerse la concreta possibilità che la scrittrice e attivista Michela Murgia si candidasse alla testa di una compagine indipendentista per le elezioni sarde dell’anno successivo. Se il primo fatto poteva essere giusto un campanello d’allarme, senza reali rischi nel contesto sardo, data la pressoché assoluta assenza di qualsiasi forma di organizzazione dei “grillini” (allora si definivano ancora così) sul territorio, la candidatura di Michela Murgia, ben vista in ambiti sociali e culturali di solito vicini al centro-sinistra, ma estranea a qualsiasi controllo da parte dei centri di potere e di interesse dominanti, suscitò subito allarme.
La giunta Cappellacci, alla fine del suo mandato, non sembrava in grado di reggere il confronto elettorale, visto l’andamento della sua amministrazione, ma nel campo del centrosinistra le debolezze non erano inferiori. Per garantirsi da qualsiasi sgradita sorpresa, il consiglio regionale, su proposta di qualche consigliere ma con un consenso largamente trasversale (per non dire unanime), nel mese di giugno concepì e portò a discussione in quattro e quattr’otto una proposta di riforma elettorale estremamente restrittiva, per molti versi pasticciata, ma sentita come indispensabile.
A poco valsero le immediate polemiche – giustificate – sulla scandalosa sproporzione a cui tale normativa costringeva la rappresentanza di genere, pure tema anche allora sensibile. La riforma fu approvata e fatta entrare in vigore in tempo utile per la tornata elettorale. Ebbe il suo indubbio successo. Un numero di voti validi vicino ai centomila, nel febbraio del 2014, non si videro assegnare alcun seggio in consigli regionale. Nemmeno i 76mila voti presi da Michela Murgia come candidata presidente (il 10% e rotti) furono sufficienti. Un risultato oggettivamente scandaloso, ma del tutto funzionale al mantenimento delle istituzioni sarde nella loro condizione di strumenti di dominio, più che di governo, locale, e rigorosamente subalterni al sistema di potere italiano.
La pessima prova fornita dalla giunta Pigliaru – colpo di genio elettorale della segreteria PD – stupì qualcuno che vi aveva confidato in buona fede (senza averne alcuna ragione, va detto), ma non fu affatto un caso sfortunato. Lo stesso presidente Pigliaru e qualche altro avventato esponente della sua maggioranza promisero, sulle prime, di mettere mano alla normativa elettorale. Come sia andata lo sappiamo. I ricorsi in sede giurisdizionale promossi fin da subito da qualche anima volenterosa, per un motivo o per l’altro, furono tutti respinti.
Non è una questione secondaria, né solo tecnica
La palla è rimasta fin da subito nel campo della politica e, in questa partita, la politica sarda ha dato e continua a dare una delle peggiori prove di sé. Ancora oggi attendiamo dalla giunta Todde, alla luce dei suoi stessi impegni, se non una precisa assunzione di responsabilità sul tema, almeno una chiara dichiarazione d’intenti. Non è una questione meramente tecnica, astratta, distante dalle urgenze della cittadinanza. La questione della legge elettorale si intreccia anzi profondamente con l’apparente impossibilità di affrontare con efficacia i nostri problemi strutturali.
Che diventi un tema primario nel dibattito pubblico è un bene. Ripartendo magari dalla proposta di modifica parziale presentata in consiglio regionale da diverse organizzazioni e da molti sottoscrittori nell’autunno 2023, presa in carico – a favore di telecamere – dal centrosinistra ma mai depositata dunque mai discussa in sede legislativa. Altra dimostrazione del cinismo e della sostanziale ostilità verso qualsiasi apertura democratica della nostra classe politica, compresa la sua parte sedicente progressista. È un tema da tenere in primo piano e su cui insistere, dunque, insieme e in connessione con le altre lotte civili, sociali e politiche in corso.
Immagine: assemblea.emr.it