La peste suina africana non c’è più ma le restrizioni rimangono. Ingiustizie e soluzioni.
Salvatore Frongia è un imprenditore desulese, cofondatore del salumificio Rovajo. È l’attuale presidente della Sezione Agroalimentare di Confindustria Sardegna Centrale. Ha alle spalle varie esperienze amministrative e anni di attivismo per l’eradicazione della peste suina africana in Sardegna: partecipa a conferenze; richiama l’attenzione da parte dei media e delle istituzioni mettendo in evidenza le disparità di trattamento dell’Isola; è tra i promotori di diversi progetti di cooperazione tra aziende per la creazione di allevamenti sardi sostenibili e a filiera corta.
De Salvatore Frongia
Dopo oltre 40 anni di persistenza della peste suina africana e oltre 3 anni in cui non si rileva nessun focolaio è sicuramente giunto il momento – non si può indugiare ancora – di mettere mano alle regole. Le recenti positività, non focolaio di malattia conclamata, sono probabilmente attribuibili ad animali guariti quando ancora il virus circolava. Ciò significa che finora il virus non ha ripreso a circolare nonostante l’interruzione, fino ad alcuni mesi fa, del controllo dell’allevamento brado irregolare.
L’altra novità riguarda l’arrivo della malattia tra i cinghiali del Piemonte, dopo aver attraversato l’Europa partendo dai paesi dell’Est. L’origine è testimoniata dall’individuazione del ceppo virale, diverso e più aggressivo rispetto a quello sardo.
Oggi, paradossalmente, la Sardegna potrebbe invertire la situazione attuale, e cioè potrebbe ottenere finalmente il riconoscimento di zona indenne e difendersi dall’arrivo del virus, in quanto non raggiungibile da animali selvatici alieni, invece di continuare ad essere considerata zona infetta e minaccia di diffonderlo.
Dalla Sardegna non si ha notizia che il virus sia mai più uscito (solo nel 1983 fu trovato un focolaio in Piemonte, subito circoscritto), non certo per via del completo divieto all’esportazione di carni e derivati sardi vigente dal 2011, perché anche in precedenza, quando ancora erano consentite le esportazioni dagli allevamenti certificati, nessuna altra diffusione della malattia al di fuori della Sardegna è mai avvenuta.
Anzi, per quanto riguarda le aziende regolari della filiera negli ultimi decenni sono diventate bravissime a seguire la rintracciabilità dei prodotti e dimostrarne sempre e in modo preciso la loro provenienza. Non solo, il virus è confinato da decenni solamente in alcune aree dell’Isola, nemmeno i cinghiali hanno contribuito ad ampliare le zone infette, le quali, finché ancora si trovava il virus attivo, erano stabilmente circoscritte.
Il comparto suinicolo, a partire dal 2011 – anno dell’embargo totale per le carni sarde – si è progressivamente contratto fino a cumulare un crollo del 75% rispetto ai numeri produttivi precedenti.
È ormai certo che il controllo del pascolo brado, dopo essere stato contrastato con le misure drastiche degli abbattimenti, ha dato i suoi frutti, questo nessuno lo può negare. Si tratta però di allungare il passo e oltrepassare questa fase, occorre pensare nuove regolamentazioni.
Occorre ripensare ad attività che riguardino anche l’ambito sociologico. Capire dove e perché permane il mito dell’eludere le regole, figlio una finta cultura resistenziale cucita addosso ad una parte di popolazione e alimentata dal costante racconto funzionale alla solita immagine stereotipata e distorta del sardo fiero e indomabile.
Sembra ormai evidente – ma forse non a tutti – che per favorire l’incremento dell’allevamento secondo le regole serve un forte incentivo. Non solo la costituzione di aziende strutturate secondo le regole della biosicurezza, ma serve soprattutto costruire un sistema di filiera efficace che promuova il prodotto locale, lo porti ai mercati, soddisfi la domanda e lo renda più disponibile e appetibile. È necessario ciò per rendere conveniente l’allevamento suinicolo, al contrario di oggi.
Le regole pensate per controllare la diffusione del virus, hanno sì contribuito a raggiungere l’obiettivo, ma hanno anche compresso il sistema, ne hanno causato la mutazione per effetto dell’adattamento fisiologico dei sistemi economici alle condizioni circostanti.
Il comparto suinicolo, a partire dal 2011 – anno dell’embargo totale per le carni sarde – si è progressivamente contratto fino a cumulare un crollo del 75% rispetto ai numeri produttivi precedenti. Questo dovrebbe spiegare senza ulteriori dubbi che quel sistema di divieti instaurati per contrastare un possibile pericolo – quello di esportare l’infezione fuori dall’Isola – ha invece finito per infliggere un danno enorme a quella parte del comparto suinicolo sardo che resisteva nonostante le restrizioni. In queste condizioni sono venute a mancare anche le necessarie pressioni e rivendicazioni da parte dei portatori d’interesse, rimasti in pochi e deboli.
In tutto ciò permane la norma che pone un embargo totale all’Isola nonostante non si verifichino contagi da 40 mesi. Il divieto di esportazione disattende palesemente il Regolamento UE 2021/605 che prescrive la permanenza in zona di massimo rischio qualora nell’ultimo anno vi siano stati contagi nel suino domestico. I recenti casi di sieropositività su suini bradi abbattuti sono da considerarsi selvatici e non di allevamento, anche in forza di ciò vengono abbattuti quando non sono in regola.
C’è poi da dire che l’interdizione per l’intero territorio avviene solo per la Sardegna e non per Germania, Polonia e gli altri Stati, ma adesso anche per Piemonte e Liguria, che riscontrano non solo positività ma addirittura contagi e malattia conclamata. In questi territori le delimitazioni avvengono in modo puntuale, comune per comune, con confini bene precisi che non comprendono mai l’intera Regione interessata.
Se l’Italia accetta che una propria porzione di territorio subisca una disparità, delle due è una: o accetta, in quanto Stato, di essere trattata diversamente rispetto agli altri Stati, oppure dà per scontato che la Sardegna non fa parte a tutti gli effetti del proprio Stato.
Con la solita solerzia nell’interpretazione restrittiva delle norme quando si tratta di Sardegna, l’embargo dal 2011 interessa tutto il territorio isolano, anche quelle porzioni che non sono mai state raggiunte dall’epidemia. Ciò rivela una evidente disparità di trattamento da parte delle istituzioni europee, nell’indifferenza dello Stato Italiano – ma questa non è una novità – e nell’inerzia dell’Amministrazione Regionale.
È preciso compito della politica regionale pretendere che il governo agisca congiuntamente ad essa per dare alla Sardegna lo stesso trattamento dato agli altri Stati. Perché se l’Italia accetta che una propria porzione di territorio subisca una disparità, delle due è una: o accetta, in quanto Stato, di essere trattata diversamente rispetto agli altri Stati, oppure dà per scontato che la Sardegna non fa parte a tutti gli effetti del proprio Stato e come tale può anche essere bistrattata.
Sembra piuttosto che ancora una volta l’Italia usi l’Isola come capro espiatorio utile a salvaguardare i ben più succulenti fatturati delle aziende del Nord. Ma oggi questo meccanismo furbo e artificioso si è inceppato perché il Piemonte e la Liguria hanno la peste suina africana nei loro territori.
Quaranta e passa anni di epidemia durante i quali si è vista pochissima strategia. Le tattiche effimere, senza mai lo sguardo rivolto in avanti, hanno prima cancellato un intero settore lasciandolo a sé stesso pensando che si potesse ricomporre senza un disegno. E così la ricrescita è ripresa molto lentamente e disordinatamente, come quella delle piante colonizzatrici in mezzo a cumuli di macerie.
Tutto ciò determina che quando parliamo di suinicoltura sarda dobbiamo obbligatoriamente partire dall’unico fattore persistente che più ha inciso su di essa: la Peste Suina Africana.
I salumifici lavorano in gran parte carni non sarde, per via delle limitazioni che impediscono a chi possiede l’autorizzazione all’esportazione, pena la perdita dell’abilitazione.
Oggi l’allevamento suinicolo in Sardegna e composto da una miriade di piccolissimi allevamenti – circa 14000 – per lo più destinati all’autoconsumo, la maggior parte con meno di venti capi. I maiali si allevano per lo più in modo complementare all’ovicaprino, la stragrande maggioranza dei 180.000 capi presenti nell’Isola sono destinati per lo più alla produzione di maialetti da latte. Di conseguenza il numero di capi corrisponde ad un totale di tonnellate prodotte molto basso rispetto alle medie di settore. Pochissimi allevamenti superano i 500 capi con poche decine di aziende forti e strutturate e moltissime piccole aziende non sufficientemente organizzate per stare sul mercato. Nessuna di esse specializzata in suino pesante da lavorazione.
Dando uno sguardo al settore della trasformazione emerge che i salumifici lavorano in gran parte carni non sarde, per via delle limitazioni che impediscono a chi possiede l’autorizzazione all’esportazione non solo di non esportare carni sarde ma anche di non poterle nemmeno lavorare per il mercato interno, pena la perdita dell’abilitazione.
Inoltre, dopo tanti anni di regole stringenti, tutto il comparto della trasformazione si è sviluppato adattando i salumifici che si sono specializzati a lavorare carni pre-sezionate e semplificando gli stabilimenti e le attrezzature per riuscire a competere nei mercati.
I macelli sono specializzati in suini leggeri da carne fresca e orientati ormai alla sola richiesta rimasta in un mercato costretto a limiti stretti.
Occorrerebbe sempre tener ben presente che il più forte incentivo allo sviluppo di un comparto è lo stimolo economico. Perché quanto più appetibile diventa un settore economico tanto più questo tenderà a organizzarsi e stare entro le norme, se queste consentono di trarne il giusto profitto. Nel caso della lotta alla Peste Suina Africana lo stimolo economico e di mercato potrebbe riuscire ad essere ben più efficace rispetto al sistema di norma e divieti superato e ormai privo dei necessari adeguamenti.
Quello che serve fare è rivedere il sistema delle regole individuando e mettendo in primo piano gli obiettivi generali da raggiungere: sviluppare, agevolare e incentivare la filiera suinicola in un sistema sicuro dal punto di vista sanitario. In secondo luogo, è necessario rivedere tutta la serie di obiettivi specifici da cui partire, analizzare e aggiornare continuamente ogni dettaglio di essi che possa essere utile a raggiungere lo scopo. Proviamo ad individuarne alcuni.
Consentire l’esportazione di carne e derivati provenienti da allevamenti certificati.
Non è più possibile mantenere in vigore una norma ingiustificata che ha letteralmente azzerato il comparto suinicolo, creata per contrastare pericolo alquanto remoto di diffusione del morbo. Un divieto che ha l’effetto di incentivare la persistenza di quella piccola parte di allevatori che operano al di fuori delle regole e dei mercati tracciati, a cui non conviene uniformarsi alla norma. Col risultato di danneggiare chi rispetta le norme e invogliare gli altri a restarne fuori. In assenza di veri e importanti sbocchi di mercato saranno pochi coloro che troveranno interesse a creare allevamenti seri e in regola.
Incrementare la presenza del servizio veterinario per la sanità animale. Incrementare l’azione degli organi di controllo sul pascolo brado e sul rispetto delle regole. Incentivare la formazione e l’informazione degli operatori.
È essenziale favorire la formazione e l’informazione degli operatori. Sono ancora molti gli operatori rimasti per troppo tempo al di fuori dal sistema che ancora identificano le istituzioni – veterinari, guardia forestale, forze dell’ordine, funzionari delle agenzie regionali – come controparte e non come servizio e supporto. È necessario instaurare un dialogo continuo che vada di pari passo con i controlli, un’attività persuasiva ferma e costante. La legge regionale sulla suinicoltura può fornire già oggi numerosi strumenti utili. È necessario uscire dall’unico concetto punitivo e repressivo, non si può rimanere in perenne stato di conflitto.
Restringere i tempi di intervento in caso di segnalazioni di violazioni da parte degli organi di controllo.
In caso di segnalazione di violazione da parte del Corpo Forestale o dalle forze dell’ordine è necessario intervenire tempestivamente, non solo con il sistema repressivo, ma anche con una continua attività di sensibilizzazione e persuasione. Inutile raccogliere dati per mesi e poi organizzare grosse e bellicose operazioni di abbattimento, in situazioni che tendono ad aggravarsi.
Incentivare l’allevamento in biosicurezza e snellire i relativi aspetti burocratici.
Bisogna favorire la creazione degli allevamenti sicuri con incentivi ancora più appetibili e intervenire in tutti quei nodi burocratici e autorizzativi che li rallentano. Servono attività di supporto alla diffusione dei prodotti e di distribuzione del valore lungo la filiera. Modernizzare il sistema e intervenire sugli squilibri, soprattutto di tipo economico che ne contrastano e rallentano la sua innovazione.
Mantenere il controllo sul rispetto delle regole sui piccoli allevamenti familiari.
Gli allevamenti per il consumo familiare sono quelli che per ovvi motivi tendono a prendere le regole in modo superficiale, anche piccole azioni sbagliate potrebbero innescare conseguenze dannose. Su questi bisogna mantenere alta la vigilanza cercando di impostare le attività dal punto di vista consulenziale piuttosto che repressivo.
Incentivare la filiera e il comparto della trasformazione.
Gli incentivi alle filiere contenuti nell’ultimo PSR sono stati un grande segno di cambiamento e di miglioramento dell’impostazione della politica agricola. Nonostante i rallentamenti dovuti per lo più a criticità operative e di regole da “prima esperienza”, si è individuato un metodo di lavoro che potrà dare buoni frutti nelle programmazioni a venire. È però necessario istituire delle premialità nei bandi o riservare fondi specifici per la suinicoltura, la quale essendo il comparto più debole ha difficoltà a competere con gli altri comparti agricoli isolani. Incentivare la creazione di marchi di qualità per i prodotti suinicoli sardi.
Adottare e incentivare sistemi di controllo della rintracciabilità che garantisca i prodotti di filiera.
I sistemi di rintracciabilità sono fondamentali per conoscere il percorso delle produzioni lungo la filiera. L’incentivazione dell’adozione di sistemi di certificazione della rintracciabilità, come ad esempio la ISO-22005, consente non solo il monitoraggio ma aggiunge anche effetti benefici per quanto riguarda la catena commerciale perché da certezza e garanzia al cliente finale. L’effetto conseguente è quello di incentivare il consumo di una determinata filiera promuovendo e incrementando la domanda, stimolo essenziale per suo il rafforzamento.
Dotare di piccoli macelli territoriali per le zone più lontane da quelli esistenti.
Alcuni territori, quelli più isolati e difficili da raggiungere, soffrono della carenza di strutture di macellazione, ciò crea difficolta, disincentiva la filiera, incidendo i costi di trasporto per gli animali vivi e delle carni. Sarebbe opportuno programmare la loro incentivazione e nell’immediato intervenire con contributi destinati all’abbattimento dei costi di trasporto. È necessario rivedere il limite di trasporto entro i 50 km per i produttori primari previsto dal Reg. CE 1/2005 che contribuisce ad aggravare i costi di trasporto per i piccoli produttori.
Occorre che tutti i portatori d’interesse tengano alta l’attenzione su questo tema, siano uniti e facciano immediate pressioni in ambito politico, regionale e di governo, per far sì che si ottenga dall’UE il superamento di una serie di regole che hanno demolito un intero comparto. Gli strumenti e le conoscenze ci sono, si devono attivare le energie lavorare su dati oggettivi con le persone più preparate e competenti. Non siamo all’anno zero come quarant’anni fa. Bisogna veramente prendere la decisione e l’impegno di aggiornare regole e strumenti per poter cambiare veramente.
Un commento
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Podet pàrrere longu ma si ligit totu in una ca est interessante meda!