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La scuola italiana è finita. Quella sarda non è ancora iniziata

Parliamoci chiaro. La scuola italiana in Sardegna è un vuoto a perdere. Lo dicono i dati, oltre che l’esperienza diretta di studenti, docenti, famiglie e chiunque abbia a che fare con il mondo “scuola”. Secondo i dati “Welfare Italia Index”, la nostra terra è prima in classifica fra le regioni che contano più giovani che lasciano la scuola. Non è una notizia che desta sorpresa, visto che da anni la Sardegna si contende con la Sicilia tale primato negativo. È la cosiddetta “dispersione scolastica” e indica il tasso di ragazzi che lasciano la scuola senza concludere alcun percorso formativo, spesso senza avere reali alternative di formazione, di lavoro e di vita.

I dati sono allarmanti: circa il 40% dei ragazzi lascia la scuola anzitempo, contro il 18% della media statale.

Eppure questa realtà terrificante – da leggersi in congiunzione con il calo demografico e con la tendenza dei giovani sardi a lasciare l’isola per la loro formazione universitaria – non sta al centro della discussione pubblica.

In particolare il sindacalismo confederale non produce alcun discorso specifico sulla scuola in Sardegna, ignorando bellamente la spirale di degrado e impoverimento culturale ed economico in cui sta precipitando la scuola sarda. I pochi che ne parlano mettono subito le mani avanti, utilizzando griglie di stampo auto coloniale che spiegano l’alto tasso di abbandono scolastico non riferendosi a questioni strutturali o a modelli politici inefficaci e inapplicabili al nostro specifico contesto, ma a presunti «fattori socioculturali più che economici».

A pochi è venuto il dubbio che la scuola italiana in Sardegna parla a studenti astratti che non esistono nella realtà, veicolando una cultura e una metodologia aliene alle reali esigenze didattiche e formative dei ragazzi e delle ragazze sarde, escludendo e silenziando ogni elemento culturale, geografico, antropologico, sociale e linguistico che li salderebbe al territorio, alle comunità, alla lunga catena storica che caratterizza una civiltà nei suoi elementi più profondi e coinvolgenti. La scuola italiana in Sardegna è a tutti gli effetti una scuola centralista, burocratica e in fin dei conti coloniale e rivolta a studenti slegati dal contesto.

In altre parole la scuola italiana in Sardegna, oltre ai gravissimi problemi di cui soffre in tutto il territorio dello Stato (endemica mancanza di risorse, degradazione delle figure professionali che reggono la scuola, standardizzazione a ribasso della cosiddetta didattica per competenze, ecc..), si rivolge a studenti di Milano e Roma, forcludendo ogni identità e specificità situata e legata alla loro propria esperienza di vita.

Immaginate, a parti invertite, se uno studente di Genova o Torino fosse obbligato ad imparare a memoria la storia dei Giudici sardi invece di studiare le vicende delle Repubbliche marinare o dovesse ripudiare il proprio patrimonio linguistico per abbracciarne e valorizzarne un altro. Che motivazione avrebbe a proseguire gli studi dal momento che la scuola gli parla di un mondo lontano e algido?

Vista da questa angolatura c’è da stupirsi che i dati non siano ancora più drammatici e ciò è dovuto solo alla grande professionalità di centinaia di docenti e lavoratori della scuola che presidiano gravissime situazioni di crisi.

Parallelamente esiste un problema strutturale della scuola italiana in Sardegna dovuto al carattere centralista e burocratico relativo ai famigerati «parametri nazionali» sul dimensionamento. In sostanza questi parametri vengono stabiliti da qualche alto papavero nei centri del potere decisionale romano, unicamente sulla base dell’esigenza di tagliare sempre più risorse all’istruzione. Il risultato non è forse noto a tutti. Qualunque scuola che non raggiunga il fatidico numero di 600 iscritti chiude o viene accorpata. Chiudere una scuola, anche se situata in un territorio popoloso e fornito di buoni servizi non è comunque un bene. Chiudere una scuola in una terra in via di spopolamento dove non esistono trasporti significa decidere deliberatamente di spegnere quel territorio.

Ecco il perché della chiusura di numerose autonomie e la mostruosa realtà di scuole sparse su decine e decine di chilometri, con la creazione di plessi assolutamente marginali e poco inclini alla cura dei bisogni didattici e formativi dello studente, a dispetto delle altisonanti frasi retoriche contenute nei PTOF1.

Questo meccanismo capestro, dovuto al cieco centralismo che non lascia alcuna competenza all’autonomia speciale della Sardegna, determina un infernale meccanismo di chiusure ed accorpamenti ad effetto domino. I principali effetti di questo dispositivo, oltre alla perdita diretta di numerosi posti di lavoro (DSGA, segreteria, ecc..), sono rappresentati dalla perdita di aderenza della scuola nei confronti del territorio e delle comunità di riferimento. La chiusura o gli accorpamenti selvaggi delle autonomie scolastiche sono una delle ragioni che determinano lo spopolamento delle comunità della Sardegna e di fronte a questa realtà nessuna Giunta Regionale ha mai promosso alcuna seria e credibile azione politica finalizzata al riconoscimento delle specificità e ai bisogni della nostra terra.

Se esistesse una classe politica forgiata sugli interessi della Sardegna dovrebbe fare le barricate su questo punto, battendo i pugni sul tavolo e pretendendo deroghe a questi assurdi meccanismi ragionieristici che non tengono in alcun conto le esigenze del nostro territorio. Invece nulla. Neppure due anni di pandemia hanno fatto fare marcia indietro a questa folle dissanguamento definito “dimensionamento”. Ricordate quando il Governo, nel pieno dell’incremento dei contagi, consigliava agli studenti di andare a piedi a scuola per evitare assembramenti? Ecco! Anche in quel caso un sistema scuola di prossimità, magari raggiungibile con mezzi propri, gestito da personale amministrativo adeguato e proporzionato alle esigenze, avrebbe sicuramente evitato molte occasioni di contagio.

Negli ultimi 15 anni siamo passati da 412 a 274 autonomie, vale a dire che quasi la metà delle scuole sarde sono sparite. Possibile che questa non diventi una battaglia centrale nell’agenda di tutta la società civile sarda?

Purtroppo i mali che affliggono la scuola sarda non sono finiti qui. Tutto il sistema della scuola italiana in Sardegna è completamente fuori squadra. Per esempio il cosiddetto “sistema di valutazione nazionale”, rappresentato dai quiz Invalsi, nega di fatto il concetto stesso di autonomia scolastica e umilia ogni possibilità di costruire un curricolo pensato per essere armonico e compatibile con il territorio e con il tessuto sociale del nostro territorio. Il sistema Invalsi ha più a che fare con l’addestramento e il conformismo che con la formazione e i bisogni formativi su cui dovrebbe basarsi la scuola e in particolare la scuola in un territorio così complesso come quello sardo. Inoltre questa vera e propria macchina livellatrice standardizza gli insegnamenti, trasforma i docenti in “addestratori ai quiz”, cancella ogni possibilità di una cultura umanistica e situata e discrimina perfino gli studenti con BES.

Non c’è bisogno di aggiungere molti altri elementi per dimostrare che la scuola italiana in Sardegna produce mostri, come il peggiore sonno della ragione. Bisogna solo prenderne atto e proporre una strada alternativa costruendo un’agenda “Scuola sarda” realmente corrispondente agli interessi delle comunità sarde.

In questa proposta bisogna coinvolgere le associazioni culturali, i movimenti, gli intellettuali, le comunità. Non si parte comunque da zero. Esistono numerose realtà che resistono alla grande livellatrice in cui si è trasformata la scuola italiana in Sardegna e per nostra fortuna esiste un nucleo sindacale sardo rappresentato dai COBAS SCUOLA SARDEGNA che può fungere da catalizzatore per questa impostante battaglia sociale e culturale.

Alle scorse elezioni RSU, tenutesi lo scorso aprile, i risultati dei Cobas Sardegna sono stati ottimi: 59 RSU, con 1.869 voti totali (16,50 %) .

Bisogna tenere presente che i Cobas Sardegna non possono svolgere assemblee con i lavoratori a causa di un accordo capestro tra l’amministrazione scolastica e i sindacati di stato, limitazione che ovviamente viola tutti i principi della democrazia sindacale e che di fatto rende ostica ogni azione sindacale a qualunque sindacato non assimilato ai dettami della scuola padronale e ministeriale.

L’11, il 12, il 13 e il 14 luglio si è tenuta ad Ulassai la scuola estiva del sindacato sardo e sul tavolo di lavoro sono finiti tutti i grandi temi che legano la scuola al disastro sociale causato da governi sempre più distanti dai reali bisogni delle persone e dei cittadini sardi.

Cultura umanista, scuola sarda, democrazia dei lavoratori della scuola e sostegno alle lotte e alle rivendicazioni sociali rappresentano i fuochi attorno a cui costruire un grande progetto di riforma della formazione in Sardegna. La scuola non risulta solo un bene prezioso in sé, ma anche una leva strategica per iniziare ad invertire il rapporto di subalternità e dipendenza che lega la Sardegna allo Stato e i sardi alle dinamiche di minorizzazione e coercizione dei sardi rispetto alla narrazione sciovinista e aziendalista italiana.


Fotografia: unsplash.com

Cumpartzi • Condividi

5 commenti

  1. Come spesso capita, l’autore di questo articolo è assolutamente vago e inconcludente nelle proposte. Cultura umanistica, scuola sarda, democrazia dei lavoratori (?!?) sono belle parole davvero, ma non si capisce come operativamente si possano tradurre in pratiche reali e concrete a settembre, quando la scuola riprende. Così si perde tempo e basta.

    • Ci sono già esempi virtuosi, che operano in applicazione dello Statuto regionale sardo. Per esempio Perfugas. Studiare quel modello ed estenderlo potrebbe essere già un primo passo. Ci sono poi progetti come La Storia sarda nella Scuola italiana (https://lastoriasarda.com/), che fornisce materiali didattici di qualità, gratuiti, liberamente utilizzabili dal corpo docente. Insomma, volendo – e sarebbe evidente informandosi un po’, se il tema interessa – non siamo del tutto sguarniti né privi di idee pragmatiche.
      Il senso di questo articolo era informativo. Il compito di cominciare a mettere mano a questa delicata e strategica materia non può essere di una singola persona, né di un organo di informazione come questo, credo sia ovvio.

    • Gentile Itzy, premettendo che non conosco l’autore e sono al mio primo contatto in assoluto con questo blog, trovo che il Suo commento rispecchi (purtroppo) un approccio disfattista troppo comune che si accende appena si sostengono argomenti riformatori su qualsivoglia “questione sarda”.
      Anzitutto l’articolo è ben più complesso e argomentato di quanto scritto nelle ultime frasi cui Lei ha voluto fare riferimento (Cultura umanistica, scuola sarda […]), cosa che a me fa invece piacere constatare.
      Inoltre, a mio avviso, il testo riporta anche riferimenti numerici chiari oltre che la giusta dose di lettura critica sardo-centrica di cui c’è un estremo bisogno, dopo decenni di retorica italo-centrica.
      Ovviamente non poteva contenere proposte “concrete” e risolutive, in quanto tale risvolto lo si può avere solo in un dialogo comune reale tra cittadini-governo sardo, oltretutto semplicemente facendo valere le leggi già in essere che consentono l’adattamento dell’istruzione alle specificità della Sardegna (intesa come cultura, storia e anche l’uso dei vari sardi e lingue di Sardegna all’interno delle ore curricolari).
      L’articolo ha lo spirito di informare, stimolare il dialogo ed accendere qualche lampadina (purtroppo ancora col carbone di Fiume Santo) nelle nostre menti e coscienze;
      detto ciò concludo dicendo che, qualsiasi elezione in cui Lei ha espresso il Suo giusto diritto di voto, ha donato la Sua fiducia a questo o quell’altro partito (o individuo indicato da questo o quell’altro partito), basato su “promesse”, “soluzioni”, “azioni programmatiche” e tante altre BELLE PAROLE che operativamente, nei decenni, hanno portato allo scatafascio sia a livello Nazionale Sardo, sia a livello di Stato Italiano (che comunque, purtroppo, ci riguarda). Citando la Sua conclusione: “così, non si è perso tempo e basta”?

      Con rispetto, saluti

      Andrea P.

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