Il tema dell’astensionismo e le questioni identitarie in Sardegna
Si sono svolte nei giorni scorsi le elezioni regionali in Sardegna. Fra le tematiche da considerare per analizzarne i risultati, quella sull’affluenza è una delle più importanti e anche una delle più semplificate. In leggera flessione rispetto alle elezioni regionali del 2019, i dati del 2024 (52.4) manifestano il mancato coinvolgimento della popolazione sarda nei processi democratici e l’insuccesso delle forze politiche, in questo momento attive in Sardegna, nel dialogare con le persone che scelgono di rinunciare a esprimere le proprie preferenze alle elezioni. La tendenza generale è quella di colpevolizzare le persone che non vanno a votare, cosa che, negli anni, non sembra aver migliorato la situazione.
Una delle domande da porsi è se le tematiche identitarie abbiano un peso in questa dinamica. C’è una correlazione tra il disinteresse popolare e le modalità attraverso cui queste tematiche vengono discusse nel dibattito pubblico?
Intanto cosa si intende per “questioni identitarie”?
La Sardegna è una realtà plurilingue e policentrica, con una sua storia, usi e costumi definiti e riconducibili a una genesi specifica, con radici culturali caratterizzate e caratterizzanti. Non a caso è stata definita una nazione senza stato: il crogiolo di lingue e culture che coesistono nel suo territorio definiscono un insieme di diversità, degne di riconoscimento, tutela e diritti.
Brigitte Vassallo, scrittrice e attivista, scrive che “i processi di liberazione nazionale (…) sono momenti di possibilità dell’esistenza delle minoranze, purché non mettano sul tavolo la differenza”. Quello che l’autrice intende dire, in questo passaggio, è che formalmente si tende a riconoscere le minoranze, finché queste non rivendicano di autodeterminarsi, sulla base di elementi identitari e codici condivisi. Si ha l’impressione che sulle questioni identitarie non esista una vera corrispondenza tra il riconoscimento formale della necessità di tutela delle minoranze e delle categorie sottorappresentate e le garanzie dei diritti di queste realtà non solo di esistere, ma anche di autodeterminarsi.
Ed è forse questo il problema: la Sardegna è inclusa in un contesto più ampio, quello italiano, in cui vige una marcata gerarchizzazione culturale. Esiste, ovvero, uno spazio geografico entro cui sono state costruite una cultura (con una lingua) ufficiale e un’identità nazionale, alla quale le diversità sono subordinate.
I processi di acculturazione, finalizzati a uniformare il territorio nazionale italiano, sono cominciati con il Risorgimento e sono ancora in atto: il riconoscimento delle diversità -definita a parole quasi sempre come una ricchezza- è possibile entro gli spazi che la cultura dominante stabilisce e nelle forme concesse.
È sullo sbilanciamento dato dalla prevalenza degli interessi esterni rispetto a quelli interni, che si misura, spesso, il grado di coinvolgimento delle persone nelle dinamiche democratiche.
Come si traduce tutto questo nella quotidianità?
Nell’individualismo e nella convinzione che la componente popolare sia irrilevante rispetto alla gestione della cosa pubblica. Come se quest’ultima non riguardasse la vita delle persone e i loro problemi.
Esiste un desiderio di riconoscimento -di essere interlocutrici e interlocutori, di essere incluse e inclusi nei discorsi sull’amministrazione della Sardegna- frustrato e inascoltato.
La rinuncia all’impegno di trascorrere tempo nelle piccole realtà, di scegliere una lingua e un registro linguistico adatti al contesto, ad esempio, viene spesso ricambiata con l’indifferenza quando non con un rigetto comprensibile, se si pensa alle disuguaglianze economiche che caratterizzano la Sardegna. Di fatto quando si è impegnate e impegnati a sopravvivere, si tende a rassegnarsi a doversela cavare da sé.
Perché le persone dovrebbero interessarsi alla politica dei partiti se dall’altra parte viene manifestata a chiare lettere la scelta di occuparsi di altro?
In Sardegna il prezzo della promessa di felicità rappresentata dall’inclusione in un orizzonte più ampio, grava sulle diversità perché l’unità nazionale è generatrice di esclusione. E le persone sarde lo sanno: fa parte della loro memoria storico-culturale l’esperienza della subalternità.
Ciò varrebbe anche per le nazioni senza stato: è il gruppo dominante che stabilisce l’essenza nazionale.
Dunque come se ne esce? Non se ne esce (bisognerebbe criticare e superare il concetto stesso di “nazione”, forse), ma questa non è una scusa per rinunciare a cercare e creare alternative e possibilità. Per ricucire le relazioni tra persone e tra persone e luoghi, tra persone e culture, e tra diversità coesistenti. Per pretendere quantomeno lo sforzo di ridurre le disuguaglianze economiche e sociali.
Occorre recuperare la dimensione comunitaria, e per farlo serve favorire la condivisione di strumenti per conoscere la propria storia, per recuperare la propria cultura e rimetterla al centro delle decisioni amministrative.
Sarebbe importante assumersi la responsabilità individuale e collettiva di svolgere un ruolo nella tutela delle risorse della Sardegna e delle sue specificità. E serve che questi processi partano dal basso, che siano alimentati continuamente.
Così che diventi impossibile ignorare il fatto che le piccole realtà sono parti integranti e fondamentali di una complessità di individui, i cui diritti non occupano dei posti secondari in una classifica.
È una funzione collettiva la lotta per i diritti: se non c’è nessuno che li rivendica, non è possibile darli per acquisiti.
Quando si acquisirà un sufficiente grado di consapevolezza di sé e della propria storia, si sarà libere e liberi abbastanza da pretendere che si discuta del come garantirli i diritti delle persone sarde (ad esempio relativamente alle modalità di gestione dei trasporti) e non del cosa (il diritto alla mobilità).
Ed esisterà un orizzonte comune: il bene delle persone sarde e la cura per le risorse della Sardegna.
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