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I frammenti visivi di territorio. Intervista a Sara Collu

de Paolo D’Ascanio

Oggi discutiamo con Sara Collu, architetto di Vallermosa, del suo progetto foto-grafico The Series Project.   

Sara, prima di tutto, ci racconti di questo tuo lavoro?
The Series Project è un progetto foto-grafico: io lo definisco così innanzitutto perché nasce all’interno di un social, Instagram, dove per la configurazione del feed (la visualizzazione principale dei contenuti di un profilo) si utilizzano i tre frame, i “quadrati”. Da lì è nata l’idea di presentare il progetto tramite quella veste. È un progetto di immagini visive che riguardano il territorio, il paesaggio, le architetture, le città e i paesi della Sardegna. Di fatto, a causa della “configurazione panoramica”, sicuramente c’è una selezione maggiore di paesaggi e di territorio, più che di vedute di “dettagli”.  

Il progetto quindi non si occupa solo di architettura? 
No, ho riunito le mie esperienze fatte all’università e le mie passioni. Ho nominato le “immagini visive”, che ho anche chiamato “frammenti visivi di territorio”. Ritengo questi importanti perché lo studente di architettura e l’architetto lavorano immediatamente tramite essi. Operiamo sia con le immagini “realistiche”, in prospettiva, che ci consentono di fare elaborazione e di presentare e rendere fruibile un progetto, sia con quelle “zenitali”, cioè quelle riprese dall’alto, con cui si ha una visione differente del territorio, che evidenzia le forme e i rapporti tra il soggetto e l’insieme, e che sono quindi un supporto allo studio del territorio. Questa passione per le immagini e la loro elaborazione, unita a quella per la fotografia mi ha portato a sperimentare all’interno di questo ambito.  

In che modo il tuo progetto parla dell’Isola e all’Isola? 
La Sardegna ha tante realtà, non ne ha una unica. Ed e` giusto precisare che gli scatti nel mio profilo Instagram non hanno riguardato solo l’Isola, ma che c’è qualcosa che proviene da altri luoghi.
A quale Sardegna mi rivolgo? Ecco, principalmente mi baso sulle mie esperienze negli studi e nelle ricerche (professionali e personali), sul mio vissuto, e sui contesti nei quali sono cresciuta. Quindi, benché il progetto si possa rivolgere alla Sardegna nel suo complesso, guarda con maggiore attenzione a quei contesti che sono i piccoli paesi, le piccole comunità che in questo momento credo siano anche quelle che hanno maggiore bisogno di attenzione. Occorre dar loro l’occasione di essere osservate, viste, scoperte. Il mio progetto ci porta principalmente in questi contesti un po’ nascosti, poco considerati.  

C’è quindi anche un intento “sociale” in questo progetto artistico? 
Sicuramente c’è un aspetto in qualche modo sociale, ma soprattutto culturale: più che promuovere un certo tipo di visione del territorio, volevo sensibilizzare su alcuni aspetti di esso. L’intento è di sottolineare l’importanza dell’osservazione del territorio con un occhio più critico e consapevole. Io lo mostro con il mio occhio, però l’idea è quella di riflettere sull’atto dell’osservare, del soffermarsi su ciò che vedi. 

Si parla di “tracce” nella presentazione del progetto. Cosa sono? 
Parto da una considerazione: a volte consideriamo il territorio agricolo, le campagne, come “naturale”. In realtà, questo è un ambiente fortemente antropizzato, un paesaggio modificato dall’uomo, anche nelle sue diverse configurazioni del Campidano, del Logudoro, della Gallura, etc. C’è una appropriazione del territorio: lo individui come tuo, e nella maggior parte dei casi si tratta di renderlo produttivo per uno scopo, magari per l’agricoltura, magari per il pascolo. Ovunque l’uomo si trovi ad operare lascia delle tracce che, chiaramente, modificano in continuazione lo spazio. Lo definisco un palinsesto, prendendo in prestito una espressione da uno degli autori dei miei studi di architettura, André Corboz. Lui parla di un palinsesto di segni e di tracce, e di fatto è così: anche solo con il suo passaggio l’uomo lascia una traccia, anche piccola, anche, a volte, non positiva. E quindi il territorio acquisisce un’identità, le sue caratteristiche vengono mischiate, smontate, riviste. 

Ultimamente c’è un tentativo di ritornare alle tracce che rendono identitario un luogo, alle sue caratteristiche imprescindibili. Per quanto riguarda la mia professione, siamo spesso alla ricerca di una ricucitura tra questi territori che l’uomo ha utilizzato per diversi scopi e dove, però, queste tracce sembrano quasi scomparse. Penso occorra tornare a osservarle e capirle.  Ad esempio, io provengo da Vallermosa, un tipico paese campidanese. L’abitato sta al centro, attorno ad esso c’è la cintura degli orti, poi i campi coltivati, ancora dopo i pascoli, e infine il monte. Da noi i confini degli orti o dei primi campi coltivati non erano suddivisi da muri o reti, ma dalle bordure di fico d’india. Questa è una traccia umana importante, che rende di fatto quel territorio identitario.  

Sara, è stato realizzato anche un video legato al progetto. Come mai questa scelta? 
Una piccola premessa su questo: la cultura e l’arte stanno vivendo un periodo molto delicato, drammatico direi. In un momento in cui non è possibile fare mostre, esibizioni o piccoli eventi, in qualche modo cerchiamo di portare avanti il progetto e presentarlo e rappresentarlo con gli unici mezzi in cui ora è possibile, cioè internet e gli altri media. 
Il video – per la realizzazione del quale ringrazio il laboratorio Undas Sardinia Art Lab – vuole essere un po’ un modo per dire che ci siamo, che continuiamo a lavorare su questo progetto, che non ci fermiamo in attesa che cultura e arte possano davvero ripartire. La location scelta, è quella dell’ex villaggio minerario di Gennamari, nel territorio di Arbus. Un territorio, per quanto mi riguarda, incredibile: è vasto e variegato, dato che ha il mare e la montagna; dove sono presenti anche degli aspetti quasi “selvaggi”, e dove c’è un’antropizzazione molto particolare. Un territorio che ha vissuto una storia mineraria importante e per alcuni lati controversa, sino ai giorni nostri. L’uomo vi ha lasciato delle tracce importanti, così come la natura stessa continua a essere molto forte. Le aree di Scivu e Piscinas, come ho scritto nell’abstract del progetto, per me rappresentano dei luoghi di ispirazione, di ricerca, di studio, ma anche di rifugio dello spirito e dell’anima. Quindi rappresenta quel territorio quasi ideale, e ho voluto sceglierlo per narrare questi frammenti che ho inserito nel contesto del video. 


Siamo in un periodo di crisi, senza dubbio. Abbiamo dovuto utilizzare degli strumenti che non utilizzavamo massicciamente. Pensi che dall’uso di questi strumenti possa derivare qualche beneficio per i territori? Ad esempio, possono essere utili a contrastare lo spopolamento delle piccole comunità? 
Questi metodi come lo smart working o l’utilizzo del cloud li conoscevo già a causa della mia professione, e li trovo molto utili. Quindi sì, se utilizzati nel modo giusto secondo me possono rappresentare delle opportunità per le piccole comunità, laddove però non eliminano l’aspetto sociale di condivisione anche fisica delle comunità, che è fondamentale, e rappresenta anche una delle problematiche pre-covid più importanti, quando già prima della crisi queste comunità si stavano svuotando di contenuti sociali. Il rischio è che si ricada nella mancanza di socialità: quello andrebbe certamente evitato.

Un’ultima curiosità: in molti dei frame risalta l’utilizzo del sardo, corredato da traduzioni in italiano e inglese. A cosa si deve questa che sembra una scelta ben precisa?
Avete visto bene: utilizzo il sardo insieme all’inglese e all’italiano. L’utilizzo dell’inglese è motivato dall’essere la lingua che connette un po’ tutti, soprattutto nel mondo di internet, dei social, e dei media. Diciamo cheè quasi la lingua d’obbligo se si vuole avere un riscontro e un respiro internazionale, essendo appunto quasi “comune” a tutti.
Per quanto riguarda italiano e sardo, io mi ritengo bilingue. Il sardo, benché purtroppo in alcuni casi non venga ufficialmente riconosciuta, è una lingua.  É un po’ più fragile dell’italiano, perció ha bisogno dell’aiuto di tutti noi per non perdersi. Infatti, non ha più lo stesso peso dell’italiano nella nostra vita di tutti i giorni, e sopratutto non ce l’ha nell’istruzione. La scelta di utilizzare il sardo, soprattutto per quanto riguarda i nomi dei luoghi, è quindi intesa quasi come un dovere: quello di portare avanti la nostra lingua. Essendo stata usata in questo caso per i toponimi, poi, si è potuto preservare e abbracciare  le sue diverse varieta`. L’utilizzo del toponimo antico, infatti, laddove è possibile, deve avere lo scopo di recuperare una sorta di continuità con la nostra lingua nel denominare i luoghi. Siamo sardi, penso che utilizzare la nostra lingua per fare in modo che non si perda sia un nostro dovere. L’italiano, infine, mi aiuta a comunicare laddove la competenza (attiva o passiva) del sardo sia più difficile o assente.

Sara, grazie mille per averci raccontato The Series Project.
Grazie a voi de S’Indipendente per il lavoro che svolgete e per dare voce alle piccole realtà indipendenti isolane.

FB ➡️ https://www.facebook.com/saracolluarchitect
IG ➡️ https://www.instagram.com/sara.collu_architect/

Fotogramma de presentada tiradu dae su video fattu dae Undas Sardinia Art Lab


4 feb 2021

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