Bilinguismo: italiano regionale di Sardegna e rendimento scolastico (parte 2 de 2)
Pro sa Die Internatzionale de sa Limba Mama acasagiamus un’artìculu de Roberto Bolognesi. Est unu resumu de unos cantos capìtulos de su libru suo Le identità linguistiche dei Sardi (Condaghes, 2013).
Parte 2 de 2. Sighit dae Bilinguismo: Arretramento del Sardo, Diglossia e Risardizzazione.
de Roberto Bolognesi
L’ITALIANO REGIONALE DI SARDEGNA
Mentre il sardo si rivitalizza e viene oggi estesamente usato sui social media, la situazione dell’italiano parlato in Sardegna si presenta problematica. Come già accennato, l’italiano adottato dai Sardi è, in effetti, una varietà intermedia tra quella ufficiale e la loro lingua originaria, varietà nata dall’uso e la conoscenza limitati della lingua italiana da parte dei parlanti del sardo. Infatti, il risultato più paradossale della secolare politica di negazione della dignità linguistica della lingua sarda è costituito dal fatto che in Sardegna, nelle situazioni in cui ciò è avvenuto, la lingua originaria non è stata sostituita dalla forma standard dell’italiano, ma dal cosiddetto Italiano Regionale di Sardegna.
L’adozione dell’italiano da parte dei Sardi di tutte le classi sociali ha comportato modifiche consistenti delle strutture della lingua di nuova adozione, dando origine a una varietà regionale dell’italiano specificamente sarda. In gran parte, quindi, per i Sardi si è verificato quello che Antonio Gramsci temeva avvenisse per il nipotino, come scrisse nella lettera a Teresina del 27 marzo 1927: «Poi l’italiano che voi gli insegnerete sarà una lingua povera, monca, fatta solo di quelle frasi e parole delle vostre conversazioni con lui, puramente infantile; egli non avrà contatto con l’ambiente circostante e finirà con l’apprendere due gerghi e nessuna lingua: un gergo italiano per la conversazione ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi e a bocconi per parlare con gli altri bambini e con la gente che incontra per la strada e in piazza».
Tutto questo significa che, malgrado tutto, il contatto linguistico in Sardegna è in effetti ancora limitato. Il contatto vero e proprio infatti non avviene fra sardo e italiano standard, ma fra sardo e una forma di italiano che comunque possiede ancora numerosi tratti provenienti dalla lingua sarda. Il contatto linguistico in Sardegna ha prodotto tutta una serie di risultati strutturalmente intermedi fra le due lingue originarie, tipici di una situazione di bilinguismo con diglossia e di uso generalizzato della commutazione di codice. In un primo lungo periodo è stato, appunto, l’italiano parlato nell’isola a subire l’influsso del sardo a tutti i livelli della struttura linguistica, mentre il sardo si limitava ad accettare numerosi prestiti lessicali dall’italiano.
L’influenza dei media sull’italiano parlato in Sardegna è stata ovviamente molto limitata fino alla diffusione della televisione, negli anni Sessanta. Successivamente, quando il sardo ha cessato di essere la “madrelingua” per le generazioni nate a partire dagli anni ‘60, anche le sue strutture grammaticali hanno cominciato a subire numerose modifiche in direzione di quelle dell’italiano (di Sardegna).
La figura seguente rappresenta la situazione attuale del repertorio linguistico a disposizione di un parlante sardo.
Dalla situazione iniziale in cui le due lingue venivano tenute separate dalle regole della diglossia, con l’italiano che veniva usato solo in situazioni formali e il sardo nelle altre, si è passati a una situazione in cui i confini tra le due lingue sono diventati molto sfumati e oggi ci troviamo di fronte a un continuum che, senza confini netti, ha come i due estremi il sardo e l’italiano standard, che vengono usati, almeno nelle intenzioni, in contesti diversi.
Naturalmente, però, soltanto le persone interamente bilingui utilizzeranno in modo attivo tutto il repertorio e non necessariamente rispettando le norme di separazione delle due lingue richieste dalla diglossia. Come già riferito, esiste un numero crescente di persone che usano il sardo anche in situazioni altamente formali, rifiutando di adeguarsi alla situazione generale di diglossia. Gli altri parlanti avranno a disposizione soltanto una porzione più o meno grande del repertorio linguistico.
Come notato già negli anni ’80 del secolo scorso da diversi studiosi (tra gli altri, Angioni, Lavinio e Lörenczi, 1983, “Sul Senso comune dei Sardi a proposito delle varietà linguistiche parlate in Sardegna”), la maggior parte dei Sardi ritiene che l’IRS coincida con l’italiano tout court.
Questo fenomeno ha comportato la stabilizzazione dell’italiano regionale, dato che la maggior parte dei parlanti lo ritiene la forma corretta della lingua, che non necessita di miglioramenti.
GLI EFFETTI DELLA SITUAZIONE LINGUISTICA REALE SUL RENDIMENTO SCOLASTICO DEI RAGAZZI SARDI
Per dare un’idea di quanto distanti siano l’IRS e l’italiano standard, basti pensare che su 71 fenomeni sintattici del sardo non presenti nell’italiano, accertati nella estesa, ma non esaustiva, descrizione effettuata da Mike Jones [1], ben 27 sono presenti nell’IRS e considerati corretti dai parlanti sardi dell’italiano.
Quali sono le conseguenze di questa situazione, in cui la lingua effettivamente parlata non coincide con le aspettative che la scuola ha nei confronti dei ragazzi sardi, considerati semplicisticamente come italofoni? Sorprendentemente, non esistono ricerche sul rapporto tra lingua effettivamente usata dai ragazzi e rendimento scolastico. Negli anni ’90 del secolo scorso, diversi autori hanno lamentato l’atteggiamento della scuola nei confronti dei ragazzi solo nominalmente italofoni (Cristina Lavinio e Maria Teresa Pinna Catte, fra gli altri), ma nessuna ricerca è stata avviata per stabilire questo rapporto.
Esiste però una ricerca sul rendimento scolastico nelle scuole in cui si insegnano le lingue di minoranza riconosciute dalla legge 482/99, pubblicata nel 2013 in rete dal Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, e seguita al seminario dell’11 e 12 marzo 2010, svoltosi a Roma presso la sede del Convitto Nazionale: “Lingue di minoranza e scuola. A dieci anni dalla L. 482/99”, promosso dal MIUR, Direzione Generale degli Ordinamenti Scolastici“. Questa ricerca riporta un miglioramento del rendimento scolastico dopo l’introduzione dell’insegnamento delle lingue di minoranza. Ma questi dati positivi riguardano l’insieme delle scuole prese in considerazione e non è possibile sapere quale sia la situazione nelle scuole sarde in cui è stata svolta l’inchiesta.
Se si prendono in considerazione i dati sulla dispersione scolastica in Sardegna, si vede immediatamente quanto siano drammatici: nel 2020 il 23% dei ragazzi sardi ha abbandonato la scuola senza conseguire il diploma, di fronte a una media italiana del 14,5%. Da alcuni decenni la Sardegna detiene la maglia nera della dispersione scolastica.
Esiste un rapporto tra la situazione linguistica reale in Sardegna e la dispersione scolastica quasi doppia rispetto alla media statale?
In tutti questi anni in cui mi sono occupato del problema, non mi è mai capitato di veder menzionata la questione linguistica come possibile causa – ovviamente assieme ad altri fattori – della gravissima situazione della scuola in Sardegna.
Nel 2010, la segretaria regionale della CISL, Oriana Putzolu, affermava: “L’indicatore percentuale di studenti con scarse capacità di comprensione della lettura, riferito all’aggregato “Isole”, evidenzia che il 36% circa degli studenti isolani non risulta in grado di comprendere nemmeno testi che presentano un livello di difficoltà molto basso. È una percentuale estremamente elevata. Nel Nord-Est del Paese questa percentuale scende al 10,9%, nel Centro si attesta al 20% circa, mentre il dato medio europeo scende di poco sotto il 20%”.
Anche se non viene affermato esplicitamente – e viene da chiedersi perché non venga affermato esplicitamente – appare immediatamente come logico il legame tra la competenza linguistica limitata e il rendimento scolastico dei ragazzi: se non si è in grado di comprendere un testo semplice in italiano, l’apprendimento di qualsiasi materia non può che risentirne pesantemente.
Per quanto riguarda il fenomeno direttamente collegato della ripetenza, si è trovato questo documento: “Scuola secondaria di II° grado (2° anno). Anche qui, per quanto riguarda le percentuali di posticipatari [ripetenti] presenti nel campione, viene rilevata una loro maggiore presenza nelle regioni settentrionali e una diminuzione costante nel passaggio dal Centro a Sud. In Val d’Aosta sono il 31%e nelle scuole italiane della Provincia di Bolzano il 38%. Scendendo al Sud, la tendenza alla diminuzione è la stessa della scuola media, fino ad arrivare al 13% della Calabria. Unica eccezione la Sardegna che arriva al 30%”.
La Sardegna, in controtendenza con le regioni dell’Italia meridionale, mostra percentuali di ripetenze del tutto analoghe a quelle di regioni abitate da altre minoranze linguistiche.
Colpisce in questo caso l’assenza di qualsiasi studio specifico dedicato al rapporto tra la grave situazione scolastica in Sardegna e la situazione linguistica reale della Sardegna. E non mi risulta neppure che tali studi esistano rispetto alla situazione generale della dispersione scolastica nel territorio dello stato italiano. Si noti che l’ultimo studio citato qui sopra non prende in considerazione la situazione linguistica come possibile causa del fenomeno ripetenze in Sardegna, Val d’Aosta e Sud Tirolo.
Quest’assenza, comunque stabilita negli interventi che ho visto, dovrebbe suscitare almeno qualche perplessità.
In Italia esistono vasti strati di popolazione autoctona che non conoscono l’italiano, almeno non l’italiano standard che la scuola pretende che essi conoscano. Il sociolinguista Gaetano Berruto ammette indirettamente l’esistenza di questo rapporto per l’area napoletana: «Anche nella situazione napoletana, il fattore classe d’età si rivela il più rilevante per la dialettofonia e il tipo di dialetto esibito mentre per l’italofonia risulta molto rilevante anche il grado di istruzione».
In altre parole, Berruto ammette che l’italofonia comporta il raggiungimento di un grado di istruzione superiore a quello che raggiungono i non italofoni e quindi che la non italofonia comporta il fallimento scolastico (almeno parziale) dei soggetti in questione.
Dato che, com’è noto, il fenomeno della dispersione scolastica si presenta gravissimo anche nel Napoletano, ho cercato su Internet degli studi sulla dispersione scolastica che mettessero in luce il rapporto tra la lingua effettivamente usata dai ragazzi napoletani e il loro abbandono degli studi, ma non ne ho trovato alcuno [2].
L’unica cosa che può aiutarci a capire è questo passaggio di Gaetano Berruto: «A Napoli e dintorni, c’è invece un’ampia zona diffusa, dai confini incerti sia quanto alle strutture che quanto agli usi, con una distinzione assai minore [rispetto a Torino] fra le varietà di lingua e varietà di dialetto, un tipico continuum con sovrapposizioni» [3].
Tradotto in termini più accessibili, il sociolinguista Berruto afferma quello che un po’ tutti già sapevano: a Napoli si parla normalmente napoletano e una forma di “italiano” distante dallo standard: una situazione simile a quella attestata in Sardegna da Ines Loi Corvetto.
Ci si chiede allora quale sia il rapporto tra questa situazione linguistica e la dispersione scolastica. Se esiste una qualche analisi che riconosce questo rapporto, io non l’ho mai incontrata.
Un altro indizio importante dell’esistenza di questo rapporto viene da Le lingue dei Sardi. Soprattutto da parte della curatrice, Anna Oppo, viene spesso sottolineato il rapporto inverso che esiste tra competenza (attiva) del sardo e grado di istruzione: «Questa analisi conferma, inoltre, come nel declino delle parlate locali abbiano giocato e giochino un ruolo importante i processi di scolarizzazione e la residenza urbana. […] E, come si è già descritto, l’uso dei due diversi codici [sardo e italiano] sembrano segnare delle “fratture”: fra generi ed età, fra bassa e alta istruzione, fra rurale e urbano, fra ceti e classi sociali» (Le lingue dei Sardi: 17-18).
Quello che stupisce nell’analisi di Anna Oppo è la mancanza di qualsiasi riferimento al fatto che i sardoparlanti, coincidendo in misura maggiore con coloro che non posseggono un’istruzione superiore, mostrano che la scuola ostacola, in un modo o nell’altro, il successo scolastico dei sardi bilingui. In altre parole, un sardoparlante, nel sistema scolastico attuale che dà per scontata la competenza dell’italiano standard, ha molte più probabilità di non completare il ciclo di studi.
E, come riconosce anche la ricerca coordinata da Anna Oppo, questo avviene malgrado tutti i sardoparlanti siano bilingui in “italiano”.
Ora, dato che i “processi di scolarizzazione” interessano da alcune generazioni tutti i sardi, per via dell’obbligo scolastico, le differenze tra bassa e alta istruzione non possono che provenire dal diverso successo scolastico dei diversi gruppi: i bilingui in sardo e in italiano hanno probabilità maggiori di non completare gli studi, mentre i monolingui in italiano risultano avvantaggiati dalla scuola.
A questo punto, è soltanto logico pensare che l’italiano dei sardoparlanti sia più ricco di interferenze dal sardo e quindi maggiormente stigmatizzato dalla scuola e quindi almeno in parte responsabile della grave dispersione scolastica attestata nell’isola.
Ovviamente, la vera responsabile del fenomeno è la scuola italiana, che si ostina a non riconoscere il fatto che l’“italiano” parlato in Sardegna non è l’italiano standard. Non sono a conoscenza di alcuna ricerca mirata a stabilire quanto questi problemi linguistici dei ragazzi sardi incidano sul loro rendimento scolastico complessivo e quindi sulla dispersione scolastica. Evidentemente alla scuola italiana il problema non interessa.
Anche per la Sardegna, perciò, è sia pure indirettamente attestato il fatto ovvio che esiste un rapporto tra dispersione scolastica (intesa come raggiungimento di un grado d’istruzione superiore) e situazione linguistica.
La questione linguistica della Sardegna si ripropone, allora, per i giovani non più tanto come conflitto tra sardo e italiano, ma come conflitto tra l’italiano di Sardegna e l’italiano standard che la scuola pretende sia già conosciuto dagli studenti delle medie superiori.
[1] Sardinian Syntax, Routledge, 1993.
[2] Si veda una rassegna di interventi indubbiamente seri, di cui fornisco i link:
http://ospitiweb.indire.it/~natd0006/oltrelascuola/oltrelascuola%201-2007/articolo4.htm
http://www.pupia.tv/campania/notizie/0003203.html
http://www.emagister.it/corso_stategie_per_contrastare_la_dispersione_scolastica-ec2369397.htm
http://www.cilap.eu/index.php?Itemid=38&id=163&option=com_content&task=view
http://www.psicozoo.it/index.php/2009/08/11/dispersione-scolastica-un-problema-di-tutti/
http://psicologiascolastica.blogspot.com/2008/11/abbandono-e-dispersione-scolastica.html
http://www.agoramagazine.it/agora/spip.php?article8937
Ribadisco: nessuno di questi studi fa riferimento ad un eventuale rapporto tra la lingua effettivamente usata dai ragazzi napoletani e la dispersione scolastica.
[3] “A mo’ di introduzione”, in Lingua e dialetto nell’Italia del Duemila, Sobrero, Alberto; Miglietta, Annarita, eds., 2006); www.archive.org/details/linguaedialetton00sobr; pag. 10.
Foto de presentada: CDC on Unsplash
21 feb 2021