Ambiente

108 Articoli

Cultura

120 Articoli

Economia

7 Articoli

Giustizia

6 Articoli

Interviste

42 Articoli

Lingua

28 Articoli

Mondo

14 Articoli

Musica

1 Articoli

Notizie

58 Articoli

Persone

7 Articoli

Politica

143 Articoli

S'Imprenta

83 Articoli

Sanità

13 Articoli

Sport

4 Articoli

Storia

53 Articoli

Trasporti

2 Articoli

Non perdere gli aggiornamenti

Sono andata a vedere al cinema “Mollo tutto e apro un chiringuito” così non dovete andarci voi

Sara Frongia è laureata in Comunicazione Innovazione Multimedialità, ha vissuto tra Pavia e Milano, per poi trasferirsi a Dublino e occuparsi di pubblicità per il turismo. Oggi vive in Sardegna. È appassionata di storia, cultura, archeologia e di femminismo intersezionale e decoloniale, che cerca di applicare nel suo lavoro.


De Sara Frongia

Andrò dritta al punto perché il mio ragionamento sarà abbastanza lungo: in Sardegna abbiamo un problema di rappresentazione.

La nuova commedia “all’italiana” ambientata in Sardegna, sulla scia del successo de “L’uomo che comprò la Luna” è in realtà l’ennesima commedia degli stereotipi che non riesce mai a emanciparsi. Laddove il primo faceva un buon lavoro, questo ne risulta una copia sbiadita e disattenta. Non fraintendetemi, ammetto candidamente di aver riso a tratti di cuore e a tratti imbarazzata, ma ad un’analisi più approfondita risulta comunque un film problematico, soprattutto sotto la lente della decostruzione dell’immaginario neocoloniale

Sono convinta che il razzismo di questo film sarebbe molto più palese se fosse stato ambientato in Africa. Lo sguardo da uomo del Nord del mondo e bianco (cosiddetto “white gaze” per chi volesse approfondire il concetto) e la parabola da complesso del salvatore bianco (cosiddetto “white saviourism”) e del “Northsplaining” (Il Nord del mondo che spiega al Sud del mondo come dovrebbe essere) sarebbero stati molto più chiari e facili da identificare se il contesto fosse stato un altro. Poiché – seppur oppressi da un neocolonialismo pervasivo – ci presentiamo al mondo come persone bianche, la razzializzazione diventa meno facile da percepire. Con questo non voglio certo sminuire il lavoro di tutti gli attori e le attrici sarde che hanno partecipato al film, ognuno fa del suo meglio con la sua professionalità e con le opportunità che si presentano, eppure una riflessione approfondita sulla sceneggiatura ed i suoi cliché è d’obbligo.

La trama è molto semplice: un milanese compra un baretto sulla spiaggia pensando di aver fatto l’affare e di fondare la nuova Costa Smeralda, ma si rende presto conto di esser finito in un paesino in mezzo al nulla, senza linea telefonica e dagli immancabili cartelli sparati a pallettoni. Siccome siamo in un posto abbandonato, antico e selvaggio, viene messo a dormire in una catapecchia con galline, polvere e letti di paglia, non trova nemmeno un posto aperto disposto a dargli un piatto caldo, le strade non hanno manco i lampioni. Ben presto si ritrova contro l’intera popolazione (tutti anziani tranne una, ovviamente, metafora di un paese di vecchi che non capisce, non vuole discostarsi da su connottu e cedere alla modernizzazione): gli chiudono le porte in faccia, lo prendono in giro in una lingua incomprensibile… il solito stereotipo del sardo chiuso e con la leppa e il fucile da cacciatore, ci siamo capiti, dai.

Questo immaginario del sardo reticente non fa altro che creare uno stereotipo di chiusura e allergia alla modernità, quando la realtà è che in Sardegna negli ultimi anni c’è molto fermento intellettuale.

Noi ridiamo di questi stereotipi come i milanesi ridono dello stereotipo del milanese imbruttito, però quando si capisce che il film è più rivolto all’esterno che a noi, accade un corto circuito. Lapola fa ridere su Videolina, ma cosa accade se viene decontestualizzata? Questo immaginario del sardo reticente non fa altro che creare uno stereotipo di chiusura e allergia alla modernità, quando la realtà è che in Sardegna negli ultimi anni c’è molto fermento intellettuale, economico e culturale tra i giovani, guidati da un desiderio di rivincita, voglia di prosperare in maniera genuina, senza forzature capitalistiche.

Dopo varie peripezie, il milanese imbruttito decide che l’unica strategia è collaborare con la popolazione, spiegando la via della verità al buon selvaggio (il personaggio interpretato da Benito Urgu, che tra l’altro proprio come Venerdì di Robinson Crusoe viene ribattezzato istantaneamente), e cioè valorizzare e folklorizzare quel che si ha per attirare turisti e non dover cedere definitivamente la terra al colone: «Non bisogna portare l’imbruttimento ai Sardi, bisogna vendere la Sardegna agli imbruttiti». Una bella favola che ci siamo sentiti raccontare da ogni dove: istituzioni, investitori, businessman illuminati senza considerare gli effetti della gentrificazione e la distorsione che questo può causare, come la storia ci insegna in altri luoghi. E se il concetto di «vendita della Sardegna» fosse un concetto proprio sbagliato? L’unico turismo possibile non è quello proiettato solamente all’esterno e di lusso, cioè quello che crea una gerarchizzazione tra il milanese o il russo coi soldi e noi, servizievoli ospiti. Esiste anche un turismo interno, ed un turismo più sostenibile rivolto a viaggiatori normali, meno forzato ma spesso bistrattato. Abbiamo i complessi di inferiorità?

Quanto di vero c’è in quell’idea di Sardegna incontaminata, senza civilizzazione ed infrastrutture base, ferma alle ambientazioni deleddiane, selvagge e inafferrabili? 

Continuiamo. Viene organizzata la sagra del “fuori pastore” (ovviamente crasi del Fuorisalone e dell’unica cosa che poteva venire in mente a un milanese in Sardegna) dove la crème de la crème dei milanesi più ricchi viene attirata dalla Costa Smeralda (di nuovo, come se fosse il miglior target a cui i Sardi possano aspirare). Gli abitanti del posto, finalmente civilizzati, ringraziano ingenuamente l’imbruttito per avergli fatto scoprire l’arte del business. Il personaggio di Benito Urgu, in una parabola di redenzione, accetta addirittura di buon cuore di esser chiamato col nome scelto dal Milanese. Il paese verrà comunque venduto a degli investitori stranieri, pronti a spianare tutto e costruirci un resort.

Spoiler: il film, ovviamente finanziato dalla Regione, fa finire il tutto con un ulteriore salvatore illuminato. Il milanese imbruttito, pentitosi, chiama l’immancabile fantomatico filantropo con gli agganci giusti nel ministero dell’ambiente, che salva tutto e tutti con un bel timbro e un’area protetta. Ah! Quindi morale della favola: i sardi non si sanno né salvare da soli – chiusi nel loro – né apprezzano né sanno sfruttare quel che hanno, non lo capiscono finché non arriva a spiegarlo il redentore sceso dai cieli della Pianura Padana. Il paese finisce nei guai e viene salvato dalla magica “tutela dello Stato Italiano”.

Un’ultima riflessione. Quanto di vero c’è in quell’idea di Sardegna incontaminata, senza civilizzazione ed infrastrutture base, ferma alle ambientazioni deleddiane, selvagge e inafferrabili? Facciamoci un esame di coscienza, non sono veramente lo specchio dell’Isola che viviamo tutti i giorni, nemmeno nella Barbagia più remota che di difficoltà strutturali ne ha tante, anche se ci piace spesso esagerarle per prenderci gioco dei continentali per metterli a disagio. Viviamo ancora (abbiamo mai vissuto?) In quella Sardegna da spaghetti western che da San Salvatore di Sinis diventava il Vecchio West americano a Cinecittà?

C’è da chiedersi: i sardi e le sarde percepiscono realmente la propria terra in quel modo? O è una semplice idealizzazione che abbiamo assorbito dalla letteratura e del racconto esterno che facciamo solo quando ci dobbiamo confrontare “all’altro”?

Siamo davvero così arretrati o ce ne siamo convinti pensando che il mondo accadesse solo altrove? È un errore dovuto alla poca rappresentazione nei prodotti culturali?

Sono cresciuta in Barbagia, e di linee telefoniche che non prendono, cartelli sparati e infrastrutture dimenticate da Dio posso parlarne tranquillamente. Non si può negare di avere problemi strutturali e sociali, dovuti soprattutto all’abbandono delle amministrazioni, che invece in questo film vengono presentate come salvatrici, pronte a reagire. Siamo davvero così arretrati o ce ne siamo convinti pensando che il mondo accadesse solo altrove? È un errore dovuto alla poca rappresentazione nei prodotti culturali?

D’altra parte dovremmo farci un esame di coscienza, ovvero qual è l’immagine che cinematograficamente e turisticamente ci ostiniamo a dare al mondo?

Gli unici film recenti ambientati in Sardegna che io riesca a ricordare rientrano sempre in almeno uno di questi paradigmi:

  • L’ambientazione dell’epoca dei banditi, che non è altro che il nostro personalissimo western;
  • Lo scontro tra civiltà, tra la modernità del mondo e l’ingenuità e s’antigoriu dell’Isola. Come se per forza modernità e tradizione dovessero scontrarsi;
  • Un continentale venuto da fuori pronto a riscattare e salvare la popolazione locale;
  • Paradiso in terra, luogo di vacanza fuori dal mondo dove non esistono pioggia, neve, alluvioni, siccità.  

La verità è questa: davvero non siamo in grado o non reputiamo interessante raccontare in maniera cinematografica la normalità del vivere in Sardegna? E se ambientassimo in una normalissima Nuoro o un paesino dell’Oristanese un semplice giallo o una fiction di produzione per maggior parte sarda? E se raccontassimo problemi altri, come la questione ambientale e militare di certe aree? Com’è che il massimo che siamo riusciti a fare nei film storici che non siano ambientati nell’Ottocento è l’imbarazzante corto Nuraghes, che tanto ci aveva promesso e altrettanto ha deluso?

I talenti ce li abbiamo, ma per lavorare nel settore si è costretti a emigrare; i soldi evidentemente ci sono se le case di produzione lombarde accedono ai nostri bandi regionali.

Una provocazione: immaginate se gli Americani non avessero mai creato prodotti cinematografici che non fossero Western o parlassero delle aree rurali del Midwest. E non dite che in Sardegna i soldi non ci sono e i talenti mancano, perché sarebbe una bugia: i talenti ce li abbiamo, ma per lavorare nel settore si è costretti a emigrare e non tornare più; i soldi evidentemente ci sono, se le grandi case di produzione lombarde (Medusa Film è di Mediaset) riescono ad accedere ai nostri bandi regionali con la promessa di un ritorno economico (molto limitato) alle nostre zone. E a chi dice di non voler accettare i soldi dello Stato italiano o aver paura della burocrazia vorrei rispondere: non sono soldi loro, sono le nostre stesse tasse che finiscono nelle tasche di altri mentre ridono di noi, nel frattempo noi perdiamo tempo ed occasioni facendo i fatalisti.

Cumpartzi • Condividi

Lascia un commento / Cummenta

I commenti saranno sottoposti ad approvazione prima della pubblicazione.

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Captcha in caricamento...