Amus fatu trintunu, cherimus fàghere fintzas trintaduos?
Ci risiamo: Sardegna in zona rossa. Chiusura senza distinzioni di buona parte degli esercizi commerciali, delle scuole, degli spazi pubblici, della vita sociale in ogni forma.
Puntuale, riecheggia anche il tormentone quotidiano, l’accusa, unica e indistinta, con cui si cerca di scaricare esclusivamente sui cittadini le responsabilità di un disastro sociale, sanitario, economico che va avanti da oltre un anno: “Comportamenti irresponsabili, non abbiamo imparato nulla” si dice, con maiestatis che è solo di facciata e malcelato paternalismo.
Si evita qualsiasi analisi delle scelte politiche fatte, delle strategie adottate, delle regole imposte e, soprattutto, dei risultati finora ottenuti. Non c’è tempo, perché si è bombardati da numeri che impediscono di volgere lo sguardo altrove: si sa pressoché tutto di contagi, decessi, terapie intensive, giorno per giorno, ma pare impossibile fermarsi e valutare alternative.
Eppure, a proposito di numeri, sembra che qualcosa stia cambiando, perché finalmente arrivano notizie che offrono la possibilità di prestare un po’ di attenzione laddove essa è stata finora carente.
Cosa sarebbe successo se, di pari passo ai dati sulla diffusione del covid-19, fossero stati pubblicati, con medesima cadenza e precisione, anche i dati relativi ad altri drammi che avvenivano contestualmente? Con che approccio sarebbe stata affrontata la pandemia, ad esempio, se fosse stato reso noto che – rapporto FOCE -, da marzo a dicembre 2020, ogni due morti per/con Covid, vi era una persona affetta da patologie gravi che moriva per mancanza di assistenza o per ritardate cure?
Nello stesso rapporto predisposto dal FOCE, si dice che “è doveroso constatare che su questi aspetti (ritardi o cancellazioni di interventi chirurgici cardiologici e per tumore, diminuzione degli accessi al pronto soccorso, trattamenti oncologici ritardati, arresto o rallentamento degli screening, azzeramento dei controlli dei pazienti in follow up, nd) dopo un anno di emergenza non è stato operato alcun intervento né strutturale, né organizzativo atto a ridurre queste criticità“.
Nella nostra isola, secondo il rapporto ACLI abbiamo registrato durante il 2020, 2.158 morti in più rispetto alla media del quinquennio precedente. Di questi, 747 sono legati al Covid-19, mentre sono più di 1400 le morti non riconducibili a questo virus.
Cosa è cambiato sotto questo aspetto, oggi, a 13 mesi dall’inizio della pandemia? Cosa hanno imparato le istituzioni, in questo senso? Che esempio hanno dato?
A detta del FOCE: niente e nessuno. E questo risultato è sotto gli occhi di tutti: un anno fa, la pandemia iniziava con le sensazionali immagini dell’ospedale cinese costruito in 10 giorni, mentre in Sardegna, dopo 13 mesi, si continuano a chiudere interi reparti con gravi conseguenze su persone e famiglie già provate da esperienze a dir poco drammatiche.
Un’altra notizia in grado di aprire scenari che apparivano ormai impensabili arriva dall’Irlanda, dove è stato condotto uno studio che afferma che solo un contagio su mille avverrebbe all’aperto.
Sulla base di questi dati, si può affermare che dei circa 15.000 contagi registrati mediamente in Italia in questi giorni, solo 15 sarebbero avvenuti in parchi, impianti sportivi, aperta campagna, spiagge, montagna. Rapportando il dato alla Sardegna, si tratterebbe di un contagio all’aperto ogni due giorni.
Numeri che potrebbero dare una diversa percezione della cosiddetta “guerra” in atto. Dati che renderebbero ancora più ingiustificabili alcune misure della zona rossa: per quale motivo si devono ancora interdire gli spazi aperti, perché impedire l’accesso a questa valvola di sfogo, forse una delle poche in grado di assicurare il mantenimento di un certo equilibrio mentale?
Un’alternativa interessante sembrava arrivare dal sistema delle chiusure localizzate che gli amministratori locali stavano adottando prima dell’inserimento della Sardegna in zona rossa. Potrebbe trattarsi di un piccolo passo avanti rispetto alla chiusura totale in cui l’isola si ritrova, che va invece a colpire tutti, indistintamente. Purtroppo non lo sapremo finché appelli come quello che fa riferimento a esperienze tuttora in corso, come quella di Madrid, non verranno ascoltati.
Viene da chiedersi quanta importanza abbia il necessario benessere psicologico dei cittadini e quanti e quali sforzi siano stati fatti al fine di garantirlo in una fase critica come questa.
“Non abbiamo imparato niente”, si sente ripetere. Ma è doveroso constatare che, solitamente, si impara in un ambiente in cui c’è qualcuno capace di apprendimento: le nostre istituzioni sono in grado di valutare e modificare il loro operato guardando ai dati certi e alle misure più efficaci adottate in altri contesti? Chi è che non ha imparato niente, in un anno di pandemia?
Pur ammettendo la sconsideratezza di certi atteggiamenti irresponsabili, non si può continuare ad accusare l’intera popolazione: a forza di sentire questo mantra, si creano convinzioni prive della base scientifica che invece si tende a cercare in maniera rigorosa altrove, sempre.
Convinzioni che escludono la possibilità di mettere in discussione le regole stabilite, le scelte politiche imposte, per cui si corre il rischio di abituarsi a qualsiasi provvedimento senza alcuno spirito critico.
Amus fatu trintunu, cherimus fachere fintzas trintaduos?
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