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1996, la prima emozionante edizione de Sa Die

Era il lontano 1996 ed io ero una quasi diciottenne. Insieme ad alcuni dei miei più cari compagni di scuola, venimmo a conoscenza di una grande festa organizzata nel quartiere di Castello per commemorare Sa Die. 

Si trattava di un evento piuttosto articolato e, con l’entusiasmo di quell’età e la felicità di avere un’occasione per curiosare ed unirci alla festa, ci mettemmo d’accordo per incontrarci

Poche erano allora a Cagliari le occasioni dove ci si poteva unire ad un flusso che sapeva di festa. C’era la fiera Natale ed il Matherland a dicembre; la fiera campionaria tra fine aprile e maggio, dove passavo un’intera giornata a curiosare, tra i padiglioni di artigianato estero, l’area dei giochi e l’angolo dei peruviani, ad ascoltare per un tempo infinito la loro musica. 

Immancabile poi il 1° Maggio, che univa la festa del lavoro a quella di Sant’Efisio. I miei genitori lavoravano quasi sempre anche durante i festivi; perciò, da bambina mi alzavo molto presto e mi accontentavo di girare l’angolo della mia via per vedere le tracas provenienti dai paesi vicini e dirette verso il cuore della sfilata. 

In genere portavo a casa i fiori di cui i componenti dei carri mi facevano dono insieme ai loro sorrisi. 

Un po’ più grande, quando potevo uscire con gli amici, si andava a piedi fino al Largo Carlo Felice, si girava tra la folla, si faceva tappa per mangiare un gelato o un panino. La sera poi ci si univa alla festa in piazza del Carmine. 

Venne poi quell’anno, il ’96, che ricordo come tra i più belli della mia vita. 

L’aria già tiepida di primavera, l’abbigliamento più leggero, l’ora legale e la luce fino a tardi, l’anno scolastico che si avviava al termine e un orizzonte di vacanze. E quella curiosa novità: Sa Die de sa Sardigna. 

Ricordo che arrivammo da viale Buoncammino, per fare in modo di entrare in Castello dalla parte di Porta Cristina

E già da quel primo passaggio, capimmo di trovarci non già ad una banale festa con le bancarelle ed un po’ di musica, ma ad una gigantesca ricostruzione storica in chiave teatrale. Ci accolse un gigantesco fuoco, alla stregua di quelli fatti nei paesi per Sant’Antonio, ogni 17 gennaio. Erano state allestite più aree sceniche dove venivano riproposti i fatti realmente accaduti in quel 28 aprile del 1794. 

Attori professionisti, un grandissimo numero di comparse, il pubblico inconsapevolmente “attore” anch’esso nell’interpretare la folla assiepata tra gli stretti vicoli di Castello in quella che è stata definita come la giornata dell’emozione. 

In un attimo fummo risucchiati dal fiume di persone e circondati da teatranti vestiti con abiti di fine Settecento. C’erano gli armigeri, che sparavano sui popolani che avanzavano inferociti verso il palazzo viceregio

C’era il viceré, in abiti sontuosi ed eleganti, affacciato al balcone che parlava di “sardignoli”, e faceva esplodere ancora più la rabbia dei rivoltosi. 

Era tutto molto affascinante e, quando ebbi modo di rifletterci a mente fredda, mi resi conto che di quei fatti reali trasposti in versione teatrale non sapevo nulla

Per me e credo per la maggior parte dei presenti, quella era semplicemente la cacciata dei piemontesi. E anche solo questa semplice definizione bastava a molti per battersi il petto con orgoglio, secondo quella tipica reazione di fierezza spontanea, che si innesca a prescindere e che non poggia su basi solide, ma è determinata dal famoso stereotipo dell’orgoglio sardo. Insomma, per farla breve, un pezzo di storia che resta in superficie ed inorgoglisce più o meno alla stessa stregua di una vittoria del Cagliari. Non può essere altrimenti. L’orgoglio fine a sé stesso che non nasce dal ri-conoscersi. 

Non mi vergogno di affermare che anche per me quella era “solo” la cacciata dei piemontesi. Mi accorsi che avevo molti vuoti, volevo capire. Ma nessuno a scuola ci aveva mai raccontato nulla di quella storia e, a dire il vero, di nessuna parte della nostra storia. 

In nessuna pagina dei tanti libri scolastici che mi erano passati tra le mani si parlava di un episodio tanto importante, né del triennio rivoluzionario, di Giovanni Maria Angioy e di una società fortemente basata sullo sfruttamento. 

Sarei stata felice di studiare e mi sono sempre sentita in qualche modo privata di qualcosa di giusto. La non conoscenza apre il cammino a due mostri: la negazione dell’identità da una parte e la mitizzazione dall’altra. In mezzo il vuoto cosmico che inghiotte il passato e ci priva della possibilità di elaborare in maniera equilibrata ilchi siamo”. 

Era un mondo senza internet. Oggi è più facile imbattersi nella conoscenza ed approfondire temi che ci interessano; è certamente più difficile, però, in questo mondo veloce, soffermarsi davvero e non trangugiare le informazioni attraverso il filtro del “consumo”. 

E per quanto io abbia avuto accesso a un innumerevole quantità di materiale per approfondire e comprendere cosa c’è dietro a “S’annu ’e s’aciapa”, sento che qualcosa mi è mancato negli anni di formazione.  

Perché è allora che si forma la nostra identità personale, e questo delicato processo di crescita non dovrebbe essere mai privato dell’identità collettiva che viene dal proprio specifico cammino storico. 

Oggi, attraverso Assemblea Nazionale Sarda, ho la fortuna di impegnarmi attivamente per far sì che Sa Die, e molte più pagine di storia rispetto ai meri fatti “de su 28” vengano ricordate come meritano. E lo faccio con immensa gratitudine. 

Del resto, per noi soci di Assemblea Nazionale Sarda non si tratta soltanto della portata ludica di una festa, ma di un momento importante di divulgazione.  

Si tratta di semi lasciati al vento, con la speranza che nascano fiori e frutti di consapevolezza, come fu per una quasi diciottenne che da allora non ha mai smesso di volgere lo sguardo alla sua storia e sentirsene parte. 


Immagine: Canale YouTube Marco Parodi

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