19 aprile 1779, la rivolta selargina
Nel film la Leggenda del pianista sull’oceano, di Giuseppe Tornatore, una metafora potente viene utilizzata per spiegare un evento improvviso ed inaspettato: quando, il chiodo che regge un quadro, decide di cedere e di smettere di far da sostegno?
Perché proprio quel momento lì?
Perché non ha dato segni prima?
Sa Die de sa Sardigna, del 28 aprile, 15 anni dopo quella selargina, metaforicamente, non è quel chiodo. Non arriva all’improvviso.
Sa Die è inserita in un contesto storico generale in cui le idee illuministe avevano fatto maturare una nuova coscienza; è preceduta dalla Rivoluzione di indipendenza americana; è preceduta dalla Rivoluzione francese che ha esportato i germi dei tre fiori: libertà, uguaglianza, fratellanza.
E la Sardegna? I segni c’erano anche in Sardegna.
La rivolta di Sassari del 1780, di cui ha scritto i giorni scorsi Cristiano Sabino su queste pagine. Nel 1789 diversi paesi si rifiutarono di pagare i tributi al feudatario.
Ma qui scriveremo della rivolta di Selargius del 1779, sconosciuta ed ignorata dalla storiografia ufficiale, dissepolta dagli archivi dallo storico indipendente Carlo Desogus Zuncheddu e da Luigi Suergiu Caredda, Tumulti in Selargius. 19 e 20 aprile 1779 (S‘avolòtu ‘e Ceraxus), Grafiche del Parteolla, che meriterebbe maggior enfasi.
Intendiamoci, il clima antipiemontese era nell’aria. Ad esempio le rime del leggendario poeta quartucciaio, Franciscu “Chiccheddu” De Plano, noto “Olata” sono inequivocabilmente antipiemontesi.
Più randagio che anarchico (ante-litteram) non sopportava i servi e i padroni, attaccava entrambi. Era povero ma temuto come fuoco ardente per le staffilate linguistiche che, una volta scagliate, si appiccicavano ai suoi nemici indelebilmente.
Mangiava quando veniva cumbidau, e ripagava con versi. Era invitato alle gare a mutetus campidanesi, e incrociò le rime anche con la leggendaria poetessa campidanese, Bittiredda, rara donna a gareggiare (per giunta vincendo) contro gli uomini.
Ecco ad esempio un’ottava di Olata, indicativa dell’umore nei confronti dei piemontesi, spia di un connubio non riuscito:
Sterrina:
Non di teneus de siguru (Non ne abbiamo di sicuro)
De bonas e giustas leis (di buone e giuste leggi)
Spanniolu o piemontesu (Spagnolo o piemontese)
Su pagu nostu s’arrasat (il nostro poco prendono)
Sa pena no s’interrompit (la pena non si interrompe)
Su mali no tenit fini (il male non ha fine)
Cubertantza (rima):
Chini basat is peis (Chi bacia i piedi)
Lompit a mesu puru (Arriva anche in mezzo)
Per capire la struttura a retrograda, ogni parola de sa cubertantza, rima con una strofa de sa sterrina (puru-siguru; peis-leis; mesu-piemontesu, ecc).
La ribellione di Selargius inizia da una tassa.
Una tassa per il salario di 20 scudi da dare al censore, il quale soprintendeva il Monte Granatico. Il censore poteva rinunciarvi in caso di annada mala, e quegli anni erano stati particolarmente avari.
Fu così che il Censore, nonostante la gravissima carestia, pretese il pagamento del salario, sostenuto con il voto anche dal sindaco e dal vicario.
Inizialmente ci fu un esposto da parte dei cittadini direttamente a su bisurei, il vicerè, con la richiesta di bloccare il pagamento. “Era stata una pessima annata”.
Anche il Censore fece ricorso a sua volta, e vinse.
Iniziò il malcontento, che si tramutò in rabbia, che sfociò nella rivolta.
Il 19 aprile 1779, 300 uomini armati di bastoni, forconi e coltelli, rapirono il Sindaco, e lo portarono al confine del paese, presso sa Cruxi de Màrmuri, dove avvenivano le impiccagioni. Catturarono anche il segretario, di rientro da Cagliari.
Strapparono in mille pezzi le carte che attestavano le tasse dovute e fecero falò con la richiesta di pagamento. Andarono poi a prelevare il vicario, che nel frattempo era uscito dal retro dell’abitazione per recarsi a Cagliari ed avvisare le autorità.
La folla inferocita prelevò di casa e obbligò su Bandidori a lanciare una grida per invitare tutti i selargini alla ribellione. Non fece in tempo.
Arrivò la notizia dell’arrivo dei Dragoni piemontesi e la folla si divise.
Nel dibattito tra chi voleva perseverare nella lotta e chi lasciar perdere, una frase, detta nella foga, impressionò qualche ruffiano non troppo convinto di stare dalla parte giusta, che fu in seguito riportata al viceré (che la accolse con grande scandalo) e poi al re stesso:
“E chi ‘enit s’urrei, ddi fatzu sartai sa corona a issu puru” (e se viene il re, faccio saltare la corona anche a lui).
A dimostrazione di quanto risuonò grave quella frase, la successiva Die de s’aciapa di Cagliari non ha mai messo in discussione il ruolo del re (una sorta di grande padre bianco), ma solo il malgoverno del viceré.
Di come proseguì la lotta a Selargius non si ha notizia, probabilmente non ci fu scontro armato. I ribelli furono catturati, puniti con s’aciotu (la fustigazione) e con la galera.
Qualcuno fu aciotau a Cagliari, per mostrare la forza della giustizia piemontese, monito per futuri ribelli. Soprattutto perché era temutissimo il contagio della rivolta ai paesi vicini.
Come tutte le rivoluzioni rimaste a metà, l’esito non è mai positivo per i rivoluzionari.
Questi i nomi dei principali capi della rivolta: i fratelli Baldassarri e Antoni Bissenti Melis (i capi rivolta, fu il secondo a pronunciare la frase incriminata) il ricco Vito Pili (probabilmente la mente della rivolta), Antonio Collu Ulloni, Franciscu Abis, Bissenti Dejana, Antiogu Dejana, Giuseppi Antoni Lochy.
Immagine presa dal gruppo facebook Sei di Selargius Se