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Sa Die: apriamo le scuole per aprire le menti! 

A Sa Die de sa Sardigna le scuole sono chiuse. A mio parere bisogna partire da questo fatto per comprendere perché a trent’anni dalla sua istituzione Sa Die non gode affatto di buona salute. Certo, anche in occasione di altre festività importanti, religiose e laiche, le scuole restano chiuse e questo non costituisce una diminutio nei confronti della loro rilevanza sociale.  

Ci sono però due importanti differenze che rendono imparagonabile una festa come Sa Die rispetto ad altre laiche come il 25 aprile, il primo maggio o le festività religiose.  

Intanto nel caso di Sa Die sono solo le scuole a chiudere, tutto il resto è aperto, compresi gli uffici regionali, il che, di per sé, rappresenta un assoluto controsenso, visto che si tratta di una festività introdotta appunto a livello della Regione Autonoma. In questo modo Sa Die resta come intrappolata in un limbo: non è una giornata a cui le scuole possono dedicare attività di riflessione e coinvolgimento rivolte ai ragazzi e non viene neppure percepita come una festa di tutta la società. Insomma, così com’è Sa Die non solo non serve a nulla, ma è addirittura funzionale a svalutare e relegare in un cantuccio sociale sempre più irrilevante il suo significato storiografico e politico. Sa Die resta infatti fuori dalle istituzioni scolastiche, visto che appunto il 28 aprile sono chiuse, sia dalla società, visto che per chi non lavora nella scuola Sa Die è un giorno come un altro…   

In secondo luogo, Sa Die non è un evento che, di per sé, nasce sulla base di una percezione sociale di massa, con un lavoro importante a monte sull’opinione pubblica di movimenti, partiti, associazioni, sindacati, intellettuali, come per esempio è storicamente avvenuto per la Diada Nacional de Catalunya, vale a dire la festa nazionale della comunità autonoma della Catalogna, che viene celebrato l’11 settembre di ogni anno. Chi ha seguito da vicino la crescita del movimento indipendentista catalano sa benissimo che la Diada si è sviluppata negli anni, proprio grazie al lavoro incessante di associazioni culturali più che di istituzioni politiche, passando da manifestazioni di esigue minoranze a mobilitazioni di massa senza precedenti. 

Al contrario della Diada, attorno a Sa Die non è mai stato creato – per dirla con Gramsci – un “senso comune”, una percezione sociale che spieghi e chiarisca alla popolazione l’importanza di ricordare quegli eventi straordinari che videro la Sardegna protagonista dell’unico tentativo rivoluzionario autonomo in Europa, non a traino delle armate francesi.  

E senza chiarire il fatto stesso che la Sardegna è stata spesso protagonista delle grandi correnti della storia europea e mondiale e non margine passivo dell’epicentro italico, risulta impossibile comunicare la stringente attualità della “cacciata dei piemontesi” che poi è un modo riduttivo e banalizzante per descrivere il tentativo – assolutamente gravido da un punto di vista storico-politico – di lavorare alla fondazione di un nuovo stato europeo su basi moderne, sovrane, democratiche e finalizzate all’emancipazione sociale e civile della sua popolazione.  

Forse inizia ora a essere più chiaro perché a Sa Die le scuole restano chiuse, i ragazzi sono convinti che il motivo sia la festa dell’Ichnusa (giuro, quando realizzo i progetti dedicati a Sa Die nelle scuole chiedo sempre e questa è la risposta più ricorrente!), la classe politica usa Sa Die come dispenser di denaro pubblico a portatori di voti e associazioni fantasma e le persone dedichino mediamente più attenzione alla giornata della carbonara che alla loro festa nazionale. 

Ma come si fa a creare “senso comune” intorno ad un evento che la società non percepisce come importante, senza una spinta istituzionale forte e costante, in mancanza di un traino intellettuale e sociale dirompente e con le scuole sprangate proprio nel giorno in cui dovrebbero aprire le loro porte al recupero della memoria della rivoluzione dei sardi? 

Si ha l’impressione che Sa Die de sa Sardigna sia stato una sorta di errore del sistema di cui presto il sistema stesso si è reso conto e ha fatto di tutto per soffocarla nella culla. E – battendo in breccia ogni complottismo – per “sistema” bisogna intendere quell’insieme articolato e storicamente determinato di potere politico e intellettuale che prolifera sulla passività dei sardi e che vede come fumo negli occhi ogni possibile presa di coscienza dei sardi come soggetto storico capace di muoversi in maniera autonoma. Questo perché in Sardegna ormai esiste un regime socio-politico che vive e si alimenta letteralmente della passività, del fatalismo, dell’egoismo e della corruzione degli abitanti di quest’isola.

Chiamatelo come volete: colonialismo, malgoverno centralista, democratura regionale o semplicemente classe politica, culturale e sociale sarda. Non siamo qui per dare etichette, ma per comprendere perché Sa Die non è mai decollata e come fare per farla uscire dal cantuccio di grigia festicciola mal digerita e farla diventare un importante evento che scaldi i cuori e accenda le menti di una quota sempre crescente di sardi e sarde. 

È naturale che questo sistema voglia sminuire il più possibile Sa Die e tendenzialmente rimuoverla dal dibattito pubblico, come del resto la lingua sarda e ogni istanza di autogoverno e insorgenza popolare che lo metta anche lontanamente in discussione.  

L’obiettivo perseguito dai conservatori sardi, da Sinistra italiana e CGIL a FdI e Psd’az è chiaro. Ma noi che vorremmo che i sardi diventassero finalmente un soggetto storico capace di uscire dalla melma della passività e dell’incoscienza, cosa vogliamo fare? 

Innanzitutto, non dobbiamo disperare. In questi trent’anni sono state comunque messe in campo tante iniziative per alimentare questo piccolo fuoco di coscienza e responsabilità dei sardi che è Sa Die. In molte scuole si sono realizzati progetti importanti, molti movimenti e associazioni hanno riscoperto i luoghi della Sarda rivoluzione, segnalando angoli di storia rimossa e riagganciando i fili di un’esperienza sradicata dalla memoria dei sardi.  

Non si riparte dunque da zero, ma con un tesoretto sociale non indifferente, attorno al quale bisogna però costruire una strategia di lungo corso, a partire dalla rivendicazione di popolo per tenere aperte le scuole in occasione di Sa Die e chiedere a tutte le autonomie scolastiche di organizzare eventi, produrre materiali, riscoprendo l’alto profilo intellettuale e morale di Angioy e dei martiri di quella straordinaria epopea di cui fu protagonista una generazione di intelligenze e forze storiche capace di tentare la costruzione – sempre scomodando Gramsci – di un “blocco storico” tra intellettuali illuminati e intraprendenti, comunità contadine e piccola borghesia cittadina finalizzando al riscatto del popolo sardo.  

Il nemico era lo stesso che ci troviamo davanti ai nostri giorni: un sistema economico fallimentare perché incapace di produrre nulla, fucina di diseguaglianze crescenti, causa di impoverimento delle comunità e un sistema politico basato sulla corruzione, sul familismo, sulla grettezza di interessi privati ed egoistici e, soprattutto, sulla subalternità nei confronti dello stato centrale.  

Dobbiamo sapere che in questa lotta per la memoria non ci aiuterà nessuno e dovremo contare solo sulle nostre forze.  

Da questo punto di vista risulta strategica l’intuizione di Assemblea Natzionale Sarda di inviare alle scuole sarde del materiale didattico e l’invito a diffonderlo tramite circolare, a tutto il personale docente.  

Questa pratica deve andare a regime, coinvolgendo il più possibile il corpo docenti, anche attraverso le organizzazioni sindacali più sensibili ad una didattica non appiattita sul centralismo e sulla pedagogia coloniale. L’obiettivo deve essere quello di portare lo stesso Consiglio Regionale a lasciare aperte le scuole in occasione di Sa Die e contemporaneamente a farsi promotore di un invito ufficiale a Dirigenti scolastici e corpo docente a promuovere la conoscenza e l’approfondimento della “Sarda Rivolutzione”.  

Di fondamentale importanza è anche l’idea di organizzare una festa nazionale coinvolgendo le attività economiche, i quartieri e pezzi crescenti della società civile nella città più popolosa della Sardegna, come ha iniziato a fare l’anno scorso Assemblea Natzionale Sarda a Cagliari. 

Altrettanto strategica risulta l’azione di recupero dell’area verde di via Quarto a Sassari, dove tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento furono impiccati otto rivoluzionari repubblicani sardi, cioè otto persone uccise perché avevano il progetto, storicamente determinato, di costruire una Repubblica autonoma di Sardegna finalmente emancipata dal sistema feudale e dai loro garanti istituzionali: la famiglia reale dei Savoia o – come viene riportato nei libelli di agitazione politica dell’epoca – «sos piemontesos».  

In quest’ultimo caso gli organizzatori (oltre ad Assemblea Natzionale Sarda, le associazioni Sa Domo de Totus, Arvures e Plastic Free) hanno coinvolto anche il liceo Artistico Figari di Sassari, dimostrando di aver compreso che il coinvolgimento delle scuole risulta fondamentale.   
La strada è lunga e certamente in salita.  

Ma concluderei ricordando l’ottimismo della volontà di Angioy che, sconfitto e in condizioni di estrema povertà, ammoniva dall’esilio parigino come la lotta non fosse affatto finita: 

La Sardegna quale essa è al giorno d’oggi e dopo ventiquattro secoli di disastri, vessazioni e del governo più sbagliato, ha ancora cinquecentomila abitanti, ossia grosso modo lo stesso numero che risiede nella Repubblica Ligure. Malgrado la cattiva amministrazione, l’insufficienza della popolazione e tutti gli intralci che ostacolano l’agricoltura, il commercio e l’industria, la Sardegna abbonda di tutto ciò che è necessario per il nutrimento e la sussistenza dei suoi abitanti, e inoltre fornisce agli stranieri grano, orzo, fave, ceci, vino, olio, tabacco, soda, bestiame, formaggio, limoni, sale, tonno e corallo… Se la Sardegna in uno stato di languore, senza governo, senza industria, dopo diversi secoli di disastri, possiede così grandi risorse, bisogna concludere che ben amministrata sarebbe uno degli stati più ricchi d’Europa, e che gli antichi non hanno avuto torto a rappresentarcela come un paese celebre per la sua grandezza, per la sua popolazione e per l’abbondanza della sua produzione. 

G.M. Angioy, Memoriale sulla Sardegna, 1799 


Immagine: Manifestosardo.org

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