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Un’alternativa per la Sardegna?

Lo scorso 11 dicembre a Tramatza si è tenuto un incontro politico-culturale promosso da Paolo Maninchedda dal titolo “Un’alternativa per la Sardegna, tra Nazione e Società”; ai partecipanti sono state poste 5 domande. Adriano Bomboi ha inviato le sue risposte alla redazione de S’indipendente e, nonostante sia passato del tempo, gli argomenti sono sempre attuali quindi ve le proponiamo.


De Adriano Bomboi

1. Quale tasso di resistenza e di impegno residua ancora nella società sarda?

Ebbene, confesso le mie difficoltà nell’interpretare questa domanda. Resistenza a cosa esattamente? Inoltre, se si parla di residui d’impegno, si da per assunto che vi sia già stata resistenza a qualcosa.  

Data la natura dell’incontro, ipotizziamo che si tratti di resistenza alle politiche, statali e/o regionali, che hanno portato l’isola in una situazione di crisi. Per avere una risposta a questa domanda è sufficiente osservare l’esito elettorale: abbiamo sempre un tasso preoccupante di astensionismo, mentre gli elettori più ottimisti continuano a premiare l’alternanza tra gli schieramenti, nella speranza che il quadro socio-economico dell’isola raggiunga dei miglioramenti. 

La “resistenza” dunque si manifesta in modi del tutto democratici, ed evidenzia una palese disaffezione di tanti sardi verso la politica, a torto o a ragione considerata incapace di affrontare i problemi della collettività. 

Un discorso a parte invece riguarda il tema dell’impegno profuso in questa “resistenza”. Perché se quello civico è relativamente basso, quello strettamente politico appare invece in gran forma. Pensiamo ad esempio alla battaglia per l’insularità in Costituzione, che ha visto un trasversale impegno partitico nel tentativo di attuarla, ma che riguarda un argomento retorico e privo di contenuti. Inserire infatti il tema dell’insularità nella Costituzione, cosa peraltro già esistente prima della riforma del Titolo V° avvenuta nel 2001, non muterà il tasso di sussidi all’isola. Da ciò ne ricaviamo l’impressione che a mancare non sia la quantità dell’impegno, ma la qualità.  

La nostra classe politica non appare culturalmente preparata ad affrontare le sfide del nostro tempo, prova ne sia il fatto che ritiene possibile risolvere ogni gap economico incrementando semplicemente il già alto tasso di trasferimenti di spesa pubblica dal centro alla periferia.  

Si tratta di una cultura assistenziale che non porta a risolvere problemi strutturali, ma a cronicizzarli per ragioni di consenso politico. Inseguire quest’ultimo è molto semplice: ci si occupa solamente di ordinaria amministrazione, tamponando le emergenze, senza doversi sobbarcare i fastidi di un complesso ed organico piano di riforme, dai risultati non scontati. Sull’argomento esistono addirittura economisti, come James M. Buchanan, che ci hanno vinto un Nobel.

2. Come costruire un programma credibile e non elettorale, un repertorio di soluzioni e non di slogan?

In ragione di quanto appena esposto, creare un credibile programma di governo diventa una questione spinosa e soprattutto impopolare: perché tutte le riforme portano al tema della responsabilità. Ossia la responsabilità di riformare le istituzioni regionali, incrementandone i poteri, e allo stesso tempo si impone la necessità di tagliare la spesa pubblica improduttiva

L’obiettivo della nostra politica insomma dovrebbe essere, non quello di mendicare più soldi pubblici a terze istituzioni centrali, ma di ridurre gradualmente l’entità di tali trasferimenti, compensandone la mancanza con poteri che ci consentano di avere un fisco ed un’istruzione, solo per citare due degli argomenti principali, capaci di accompagnare la crescita delle imprese. Insomma a misura di una società che intende far maturare il proprio capitale sociale sul piano qualitativo, affinché si crei un ecosistema territoriale in grado di attirare sul territorio investimenti ad alto valore aggiunto, diversificando meglio un’economia arretrata, densa di monoculture ipersussidiate e costellata di microimprese. Badate bene, come ripeto da anni, non esistono altre scorciatoie per far uscire la Sardegna dalle sabbie dell’immobilismo e del fatalismo.  

E se non inizieremo questo percorso, sarà il muro stesso della realtà a scontrarsi con le nostre pie illusioni. 

Un argomento a latere sarebbe anche quello di premiare il tema della trasparenza in politica da parte di chi dovrebbe promuovere tali argomenti. Tra gli invitati a questo incontro abbiamo Silvio Lai (PD), ad ottobre condannato dalla Corte dei Conti per un uso del denaro dei contribuenti giudicato improprio. Cosa può dirci il sig. Lai in materia? O meglio, cosa può dire ai sardi su questo argomento? Inoltre, cosa può dirci sulla faccenda il promotore di questo incontro? Ritiene che non sia un argomento di rilievo ai fini della sua domanda?

3. Come far divenire il progetto/pensiero sulla Nazione Sarda un pensiero pienamente legittimo, condiviso e riconosciuto dalle istituzioni europee e italiane?

A mio modesto avviso in due modi: il primo riguarda quanto appena detto, perché dobbiamo sostituire la politica del vittimismo e della questua permanente di denaro pubblico con la politica della responsabilità. Non vogliamo un volume maggiore di soldi pubblici, vogliamo più poteri affinché si diventi responsabili nella capacità di poter attirare investimenti sani, e nella capacità di spendere in misura più efficiente le entrate che da soli dovremmo poterci guadagnare. Il secondo riguarda il nostro diritto all’uso della madrelingua sarda, e in generale al plurilinguismo, per cui non esistono seri ostacoli normativi al riguardo, ma anzi, opportunità tutte da sviluppare. Se i partiti sardi sono i primi a non voler approfondire uno strumento di legittimazione politica interna e internazionale, non possono pretendere che siano terzi a farlo in nostra vece.

4. Come arrivare alle alleanze con altri partiti?

Non esiste un tutorial od una roadmap al riguardo. Per sviluppare alleanze politiche, come nella migliore tradizione sardista, è sufficiente affidarsi ad un programma sottoscritto da tutti i membri di una coalizione. Ma sfortunatamente Cagliari non è Berlino: nella nostra cultura politica, consociativa e assistenziale, i programmi politici sono pura retorica. Propaganda elettorale puntualmente smentita nel momento in cui si avvia una nuova legislatura, a volte con serie motivazioni (tra cui gli insostenibili costi delle promesse elettorali), altre volte senza alcuna valida motivazione (non vi è reale intenzione di portare avanti determinati argomenti, considerati più un fastidio alla tenuta del potere che utili ad un tranquillo decorso della legislatura). A questo riguardo un recente paper di Murtinu (Utrecht University), Piccirilli e Sacchi, ha evidenziato il nesso tra l’ignoranza degli elettori e l’inadeguatezza delle politiche messe in campo dagli amministratori (“Rational inattention and politics: how parties use fiscal policies to manipulate voters”, Springer 2021). 

Come sviluppare una credibile piattaforma politica? Forse rispolverando l’idea delle primarie. Non risolverebbe tutti i problemi, ma potrebbe limitare l’ultradecennale presenza di politici abituati a perdere tempo in retorica.

5. Come attrarre il voto dei liberal che hanno votato a destra?

Questo mi pare l’ultimo dei problemi. Sia perché una piattaforma riformista non può essere ascritta in termini semplicistici alla destra o alla sinistra, nei termini in cui vengono declinate in Italia; sia perché se si organizza un incontro e si invitano principalmente dei dipendenti pubblici e dei sindacalisti come a Tramatza, ma non esponenti del mondo delle imprese, allora si dimostra che non si sono veramente comprese le istanze del mondo liberale, peraltro scarsamente diffuso. Soprattutto alcuni degli argomenti trattati nel corso di queste risposte.

Fotografia: Bustianu Cumpostu

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