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L’indipendentismo ha un futuro, ma non è neutro

de Cristiano Sabino

L’articolo “Indipendentismo: impariamo a osservare e ad ascoltare” di Marco Fadda coglie, a mio avviso, un punto fondamentale: la crisi dell’indipendentismo è ormai gravissima, direi irreversibile, sotto gli occhi di tutti. E bisogna farci i conti.
Negli ultimi vent’anni si è solo messa la polvere sotto il tappeto e ogni critica, ogni proposta di discussione, ogni tentativo di uscire fuori dalla gabbia delle sigle è stata vissuta come reato di lesa maestà.
In alcuni ambienti addirittura si è parlato di “congelamento” per botte di cinque o dieci anni degli “eretici” e in altri – fino a pochi mesi fa – si istituivano veri e propri processi politici per scovare i “sabotatori”, spesso per aver mosso una critica sui social o addirittura per un “like” o un “cuoricino”.
La psicopolizia di Orwell in confronto è roba da ragazzini senza fantasia!

L’indipendentismo all’inizio degli anni Duemila, con le due innovative proposte di IRS A Manca pro s’Indipendentzia (nate all’incirca nello stesso periodo), ha determinato un dibattito assai avanzato, marcando la linea politica per il decennio a venire. Dalla questione energetica alla lotta all’occupazione militare, dalla questione della lingua alla vertenza entrate, dalla critica alla sinistra centralista all’apertura internazionale – e soprattutto mediterranea – al dibattito che contemporaneamente si svolgeva in Catalogna e nel Paese Basco. Vi era soprattutto una nuova concezione giovanile, moderna, militante e popolare. Veniva fuori una nuova generazione di sardi e sarde, oggi spesso impegnati in vari ambiti della cultura, delle amministrazioni, nella scuola, nella ricerca. Ci si staccava allora da un’idea folklorica e polverosa di “indipendentismo”, troppo spesso assai compromessa con altre concezioni quali l’autonomismo e il federalismo di maniera.

Ma non è tutto rose e fiori.
I recinti ideologici hanno anche ingessato per un decennio la nascita di un movimento – magari plurale e composito – ma unificato su alcuni obiettivi strategici fondamentali. La spaccatura più grande si è senz’altro avuta nel 2006 quando, di fronte all’operazione repressiva denominata “Arcadia”, IRS ha assunto una posizione ponziopilatesca, dando “fiducia alla magistratura” e svincolandosi dalla questione come se riguardasse solo l’ala sinistra dell’indipendentismo. È stato un momento oscuro e indecoroso dell’indipendentismo, ma non è stato il solo.
Nasceva sotto traccia una certa idea “proprietaria” dell’indipendentismo, in cui i leader erano depositari di una sorta di scienza divinatoria e di una licenza politica di fare tutto ciò che ritenevano opportuno. Leaderismo e gregarismo sono le caratteristiche con cui quel tipo di mentalità ha lentamente disperso vastissime energie. Centinaia di attivisti si sono allontanati dalla scena politica; numeri che non sono affatto un’inezia in una terra le cui risorse demografiche non sono infinite.

Si è così aperta una linea di credito antidemocratica assai pericolosa a leader o gruppi assai ristretti che avevano un solo obiettivo: fare le scarpe agli altri gruppi utilizzando ogni mezzo ed emergere come unico punto di riferimento indipendentista. L’indipendentismo organizzato ha spesso disinnescato tutte le occasioni di partecipazione popolare per fare emergere una sorta di “mania del controllo” che ha tratti e rilievi politicamente inquietanti. Gli esempi sono tanti: dalla lotta contro il nucleare alla rapida dissoluzione dei meccanismi partecipativi all’indomani delle elezioni.
Nel frattempo si dedicavano risorse spropositate a una sorta di “corsa agli armamenenti” tra sigle – e in definitiva tra leader e loro entourage – che ha portato al disastro di cui parla Fadda

È un tema complesso e cerco di affrontarlo meglio in una prossima e imminente pubblicazione per Catartica Edizioni (Dare all’abbandono un movimento e un’anima).

Ora mi interessa passare alla seconda questione che pone l’autore dell’articolo su cui, a dire la verità, sono meno concorde. La tesi di Fadda, infatti, sostiene che l’indipendentismo debba ripartire dagli amministratori locali. Intendiamoci, non è che molti amministratori indipendentisti e in particolare quelli inquadrati dentro Corona de Logu, non siano degni di attenzione. Ma credo sia un errore sostenere che «serve una fine formazione politica, ispirata dall’esperienza dei nostri amministratori locali che hanno già dimostrato, con i fatti, di saper amministrare in modo esemplare». C’è un equivoco di base in questo presupposto e cioè che l’indipendentismo non debba avere un orizzonte politico e che si debba ispirare ad una generica capacità di buon governo civico. Questo è senz’altro vero, ma non basta. L’idea di un indipendentismo “apolitico”, tecnico, meramente amministrativo è un mito privo di fondamenta.

Il problema è quando le divisioni non sono basate su paradigmi politici diversi, ma su lotte di cortile, su un leaderismo esasperato, su gruppetti minoritari, settari ed autoreferenziali.
Per esempio, quali erano le differenze politiche di fondo fra Sardi LiberiAutodeterminatzione Partito dei Sardi alle scorse elezioni regionali? Quali erano le differenze sostanziali tra i tre candidati presidenti? È chiaro che qualcosa non ha funzionato. E, all’indomani delle elezioni, quando diverse voci hanno avanzato la necessità di una severa autocritica e di superare la politica dei veti incrociati e del leaderismo gruppettaro, come spiegare la reazione isterica da parte di alcuni dirigenti indipendentisti?

A mio parere la questione è da rovesciare rispetto alle conclusioni di Fadda. Non si deve sperare in alcun «territorio neutro nel quale aprirsi al confronto, all’elaborazione di idee e di programmi». Semplicemente non esistono territori neutri. Qualunque territorio è un territorio politico. Va rilanciato dunque un nuovo terreno politico rompendo gli schemi gruppettari, oligarchici, settari e leaderisti in cui è affogato l’indipendentismo negli ultimi anni. Questo sì, ma senza illudersi sul fatto che esistano territori neutri o cose così.

Da parte mia sto lavorando ad un’idea popolare (non populista) di renovatio sardismi (che chiamo “sardismo popolare”), vale a dire all’idea di un movimento popolare sardo capace di mettere al centro della sua azione i temi e le proposte dell’autogoverno, della difesa dei diritti dei lavoratori e dei disoccupati, della difesa del territorio e dell’ambiente, dell’emancipazione delle donne.
Faccio un esempio. L’indipendentismo (o comunque vogliamo chiamare la realtà politica che tende al pieno autogoverno della Sardegna) deve certamente aprire al mondo dell’impresa, delle partite IVA, ecc.
Bisogna ricordare, fra l’altro, che esiste un esempio storico in cui questa cosa si è fatta ed è la Consulta Rivoluzionaria dove, appunto, indipendentisti (IRSAMpISNI), Movimento Pastori Sardi, Partite Iva (soprattutto del Sulcis) e alcuni settori di operai e studenti si erano riunite in una piattaforma per la “soberanìa” dell’isola. La cosa fallì per tante ragioni, ma soprattutto per la strategia entrista di IRS nel centro-sinistra italiano. Quindi, come si vede, la ragione non è la mancanza di un territorio comune, ma la logica tatticista, trasformista di un certo indipendentismo che si è sempre mosso con la prospettiva di sistemare i suoi e non con la visione di fare crescere il movimento per l’autogoverno.
Apriamo alle partite IVA, dicevo. Per esempio ai proprietari di strutture recettive che lavorano nella ristorazione. Benissimo! E cosa diciamo ai tanti lavoratori stagionali, ai lavoratori neri e grigi, ai falsi tirocinanti che fanno il lavapiatti pagati 500 euro al mese lavorando 10 ore al giorno per tutta la stagione?

Qual è il terreno neutro? Ci saranno indipendentisti che si schiereranno con le ragioni dell’impresa e indipendentisti che si schiereranno con le ragioni dei lavoratori dipendenti. Ed è giusto che sia così. Ovunque accade che ci si divida su queste cose. Pretendere che si stia tutti uniti è abbastanza mitologico.
Il problema è che in Sardegna non ci si è mai divisi su questo o non principalmente. Abbiamo passato dieci anni a discutere di Gandhi, “non rivendicazionismo”, quattro mori e albero deradicato. A guardarci da fuori dovevamo sembrare dei pazzi. E lo eravamo.
Ci sono indipendentisti a cui va bene l’occupazione militare. Ci sono indipendentisti che celebrano il “massacro delle Foibe”. Ci sono indipendentisti che sostengono la privatizzazione della sanità pubblica e il finanziamento pubblico alla sanità privata. Ci sono indipendentisti a favore del nucleare. Appena si mette fuori il naso dal buon governo della propria bidda ci si confronta con queste cose, è inevitabile!

Il discorso è complicato e puntare sul “buon governo” dei territori è cosa buona e giusta, ma non ci salverà dal fare i conti – e conti politici – con tutte queste cose. E non sarà né facile, né indolore.

Foto de presentada:  Markus Spiske on Unsplash

24 feb 2021

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