L’eredità di Sardegna Possibile. Intervista a Omar Onnis, autore di “Altri traguardi”
È in arrivo per Catartica Edizioni “Altri traguardi” di Omar Onnis. Il libro racconta il tentativo – fallito per un soffio – della coalizione a trazione indipendentista Sardegna Possibile di entrare dalla porta principale nel Consiglio Regionale della Regione Autonoma della Sardegna. Abbiamo rivolto alcune domande all’autore.
De Cristiano Sabino
1. Ciao Omar. Cosa pensi della Legge elettorale, ancora in vigore, che di fatto impedì a Sardegna Possibile di accedere al Consiglio Regionale?
Ne penso tutto il male possibile. Ma non per via del suo impatto sull’esperienza elettorale di Sardegna Possibile 2014. È un problema oggettivo, dalla rilevanza politica evidente. Fin dal suo concepimento (e nel mio libro lo metto in evidenza) quella normativa fu studiata per blindare il duopolio consociativo tra i due maggiori aggregati politici della scena sarda, quelli che comunemente si chiamano centrodestra e centrosinistra. Tutta la formulazione di quella legge è votata all’esclusione di qualsiasi terzo incomodo e della stessa possibilità che qualche outsider potesse – e possa ancora – conquistare un ruolo politico di peso in Consiglio regionale.
L’ottica autoconservativa dei due poli maggiori si traduce inevitabilmente in un enorme vulnus democratico, in quanto, in combinazione con la riduzione dei seggi da 80 a 60, limita drasticamente la possibilità stessa di un’adeguata rappresentanza politica nell’unico consesso istituzionale in cui il voto della cittadinanza sarda abbia un significato reale. Direi che la battaglia per la riforma della legge elettorale dovrebbe essere uno dei capisaldi di qualsiasi offerta politica alternativa al duopolio oligarchico attualmente dominante.
2. Cosa rimane oggi dell’avventura elettorale di Sardegna Possibile del 2014?
Difficile dirlo. Rimane una memoria condivisa da moltissime persone e un’esperienza sul campo di notevole spessore per chi la visse. Ma questo è il lato soggettivo della faccenda. In termini politici e pragmatici, resta una certa eredità di pratiche e di metodi che alcuni gruppi hanno fatto propria e continuano a promuovere. Rimane una certa idea di politica come ascolto e come impegno diretto, una prospettiva democratica che cerca di coniugare autodeterminazione, partecipazione popolare e attenzione consapevole ai grandi problemi dell’isola.
Un’idea anche di politica “competente”. Ma non nel senso comunemente usato dalle élite italiane e sarde, che è un senso conservatore e a tratti reazionario, certamente anti-popolare; bensì in un senso direi gramsciano, ossia basata sullo studio e sulla condivisione del sapere, sull’approccio dal basso alle questioni e sulla valorizzazione delle energie sociali e dei saperi esistenti. In più, resta un orizzonte politico ideale, in cui l’indipendentismo smette la sua veste autoreferenziale e difensiva e diventa forza traente, o lievito se si preferisce, della necessaria conquista democratica.
3. Perché quel patrimonio di forze politiche e di voti non divenne la base di un progetto di lungo corso?
Prima di tutto per ragioni molto pratiche. Quell’esperimento fu ideato e realizzato nel giro di qualche mese: un lasso di tempo ridicolmente breve. Ciò richiese un dispendio di forze soverchiante. A livello personale fu un vero sacrificio. Nessuno di noi viveva di politica, né avevamo le spalle coperte. Nessun mandante, nessun oscuro protettore (cose pure più volte addebitateci, nel corso di quei mesi e anche successivamente). Non disponevamo di altre risorse materiali e morali all’infuori delle nostre.
Molti osservatori rimproverarono a Michela Murgia di aver abbandonato la barca al momento della difficoltà: è una lettura non solo falsa ma anche ingenerosa, al limite del vergognoso. Intanto nessuno abbandonò nulla. Dopo le elezioni del 2014 ci furono settimane di discussioni e tentativi pratici per tenere aperto quello spazio e renderlo stabile, al di là delle figure che lo animavano al momento.
Il percorso fu ostacolato prima di tutto dalla volontà contraria del partito che aveva promosso l’intera operazione, ossia ProgReS. Le ragioni di questa contrarietà andrebbero chieste a chi se ne fece portatore. Io, nel libro, mi limito a fare la cronaca di quelle vicende, chiarendone i vari passaggi. Del resto, si trattava di ragioni legittime, al di là del fatto che io e altri le condividessimo o meno. Fatto sta che questo fu l’ostacolo principale.
Un altro fu la circostanza che molte persone avevano aderito a Sardegna Possibile spinte dall’ammirazione personale verso Michela Murgia e, forse, solo in second’ordine per una convinzione politica profonda. Questa non è mai una base solida su cui costruire un progetto politico duraturo, oltre a essere discutibile proprio sul piano politico. Ma anche in questo caso non fu certo responsabilità di Michela e del gruppo promotore del progetto.
C’erano anche ragioni esterne a Sardegna Possibile, che ne decretarono l’esaurimento. Lo scenario politico sardo, con l’elezione di Francesco Pigliaru, si ricompose rapidamente, in termini conservativi, dopo la crisi dell’anno precedente. In ambito indipendentista, restò viva l’ostilità, o quanto meno il sospetto, verso Sardegna Possibile, impedendo tanto una convergenza feconda su un terreno di confronto e collaborazione, quanto e prima ancora un’analisi serena di quanto accaduto.
4. Quali sono le differenze tra l’esperienza di Sardegna Possibile e quelle più recenti di “Autodeterminatzione” e “Sardi Liberi”?
Ho seguito un po’ la parabola di Autodeterminazione, molto meno quella di Sardi Liberi. Secondo me uno dei problemi è che, anche laddove il punto di riferimento fosse Sardegna Possibile, non se ne è studiato bene il percorso e il metodo, dunque non è stato possibile replicarne il risultato. Ma non credo ci sia solo questo. Probabilmente – e qui parlo in generale, al di là di queste due esperienze particolari – dovremmo imparare a fare politica in modo diverso rispetto a quello tipico delle forze dominanti. Non solo in senso retorico e comunicativo, ma prima di tutto nella prassi.
Serve costruire una base sociale ampia e robusta, ossia partire dal basso, dalle nostre comunità, dalle lotte già in corso e da chi le anima. Così come dalle amministrazioni locali. Su questa base poi si può costruire un percorso di aggregazione che si possa presentare alle elezioni con speranze di risultato positivo. Che non vuol dire necessariamente sbaragliare al primo colpo le aggregazioni coloniali, ma prima di tutto diventare un soggetto rappresentativo di una realtà sociale e culturale che esiste oltre ai soggetti che materialmente partecipano alla campagna elettorale ed eventualmente entrano nel Consiglio regionale.
Gli accordi “a freddo” tra questo e quel leader (o presunto tale), con la speranza di raggranellare qualche consenso, mi sembrano una ricetta destinata alla sconfitta. O, come già successo, destinata a fare degli indipendentisti una stampella dei poli dominanti, accettando di esservi cooptati. D’altra parte, è anche vero che i due tentativi citati si inseriscono in un quadro politico desolante, in cui era per certi versi doveroso, oltre che lecito, provarci. Ho grande rispetto per chi si è cimentato in quei tentativi, non riesco ad essere eccessivamente critico, al di là delle mie valutazioni soggettive.
5. Cosa pensi dell’annosa questione sull’unità degli indipendentisti?
Penso che sia un falso problema e anche un dispositivo retorico paralizzante. A chi e a cosa serve? A mio avviso è utile solo a impedire che si formi una vera risposta democratica alla palude a cui è ridotta la politica in Sardegna. Sposta il problema dal terreno della realtà sociale e materiale a quello delle formule astratte o delle petizioni di principio fini a se stesse. Come dico da tempo, l’indipendentismo non è un’ideologia politica, non rappresenta un orizzonte teorico, tematico e pragmatico compiuto, autosufficiente. Si può aspirare all’indipendenza della Sardegna ed essere nazionalisti reazionari, neoliberisti convinti, conservatori, liberal riformisti, socialisti, ecc.
Il problema non è unire artificiosamente gli indipendentisti e le indipendentiste, bensì imporre nello scenario politico sardo uno spostamento di baricentro. Non più dipendenza da Roma, o Milano, ma reale autonomia di visione e di scelte. Bisogna decolonizzare la politica sarda e, a questo scopo, provincializzare l’Italia. Che non è certo il centro del mondo, contrariamente a quanto propugnano i promotori dell’insularità in costituzione (altro diversivo di successo). Le varie sensibilità politiche e culturali presenti in Sardegna devono poter essere rappresentate, trovando formule più rispondenti alla nostra realtà sociale e territoriale. Che però bisogna sforzarsi di conoscere bene.
Da lì, poi, lo sguardo deve aprirsi sul mondo, al di là dei recinti culturali imposti dalla condizione di provincia marginale dell’Italia. Affrontando i problemi concreti con uno sguardo diverso e con piglio democratico, il tema dell’autodeterminazione si pone da sé. Per questo non mi convince l’ostinazione con cui si mettono al centro del discorso indipendentista temi identitari o affrontati in chiave esclusivamente identitaria, o nazionalista. La maggior parte dei nostri problemi attengono alla sfera dei bisogni basilari della cittadinanza, alla sfera dei diritti. Questi problemi hanno la loro radice prima di tutto nella condizione di subalternità e dipendenza a cui ci ha costretto la storia degli ultimi due secoli. Insistere con l’espediente retorico dell’unità indipendentista aiuta davvero ad affrontare questa sfida? A me non sembra proprio. Poi, chiaramente, ci saranno occasioni o battaglie in cui si potrà creare una convergenza di intenti. Ma l’unità in quel caso sarà richiesta dalle circostanze e avrà una natura concreta, non calata dall’alto e imposta artificiosamente.
6. È possibile una nuova “Sardegna Possibile”? Se sì, con quali correttivi rispetto al passato?
Non credo. Non sarebbe nemmeno auspicabile. Cambiano i tempi e il contesto, cambiano i soggetti coinvolti. Cercare di replicare, sic et simpliciter, un esperimento di dieci anni prima sarebbe sciocco, oltre che destinato al fallimento. Si può invece cercare di capire come andarono le cose in quei mesi tra 2013 e 2014 e provare a trarne degli insegnamenti. Ma ovviamente è necessario fare memoria di quel che successe allora e, ancor più che memoria, farne storia, ossia una ricostruzione documentata e argomentata.
Dopo di che, penso sia sempre meglio fare uno sforzo di fantasia e anche di consapevolezza e cercare formule adeguate al proprio presente e al proprio immediato futuro, basate sulle forze di cui si dispone. Il mio libro non offre rimedi. È solo un piccolo e circoscritto contributo ricostruttivo, senza alcuna pretesa di esaustività, che tuttavia ho sentito come necessario, in questo momento. Spero che possa suscitare qualche riflessione e anche qualche discussione, preferibilmente non in chiave personale e non solo sui social, e comunque il più possibile orientata al superamento in avanti di questa difficile fase politica.
Grazie Omar.
Grazie a voi
Fotografia de presentada: Ale Cani