Dobbiamo soffermarci a “fare il tagliando” alle parole
De Alessandra Casagrande
Alcune settimane fa ho peccato di iperbole.
Alla domanda provocatoria “L’Assemblea Natzionale Sarda è maschilista?”, da persona – prima ancora che da donna e prima ancora che da vicepresidente dell’Assemblea – ho risposto: “ANS è femminista E maschilista”.
La domanda era tendenziosa e io ho risposto in modo iperbolico.
Letta in modo sincero e intellettualmente onesto, la mia risposta intendeva semplicemente rimarcare l’articolo 10 dei valori dell’Assemblea: la contrarietà ad ogni tipo di sessismo.
Ho lasciato quindi l’onere dell’interpretazione al lettore. Chi vede sessismo in entrambi i termini, non avrà difficoltà a vedere che si annullano a vicenda. Chi vede sessismo in uno solo, si assuma la responsabilità di discriminare.
La mia risposta non ha avuto riscontri lusinghieri, sia all’esterno della nostra organizzazione (e questo me l’aspettavo) sia all’interno (e questo francamente me l’aspettavo meno).
Laddove è stata sottoposta ad una critica argomentata, ciò rientra nella dialettica della democrazia.
Laddove invece è diventata uno spunto per attaccare dall’esterno la nostra giovane organizzazione, o peggio, per minarla dall’interno, mi trova determinata a non arretrare di un millimetro rispetto ai principi di tolleranza e inclusività sui quali si fonda l’Assemblea Natzionale Sarda.
Siamo un’associazione culturale plurale, nella quale coesistono diverse sensibilità politiche, culturali e sociali. La nostra parola chiave dev’essere “tolleranza”. La libertà di espressione, come dice il filosofo Arif Ahmed, deve potersi muovere “senza paura dell’intolleranza”.
L’espressione di opinioni diverse può offendere, ma in democrazia questo è un rischio che vale la pena correre.
Le parole sono importanti, si diceva, e nessuno lo sa meglio di un’insegnante: passo ore ed ore ad insegnare ai miei alunni le mille corrispondenze tra segno, significato e significante.
In questi tempi siamo assediati da molte parole che arrivano dai nostri colonizzatori culturali: Italia, Europa e America. Ognuna di queste nuove parole ci chiede di creare nuove responsabilità, nuove sensibilità, nuove colpe e nuovi peccati.
Ognuna di queste parole ci richiede di aprirci a nuove sensibilità. A volte si tratta di sensibilità che avevamo già, e che la colonizzazione culturale ci ha fatto dimenticare. A volte dobbiamo anche rifiutare di farci ingabbiare in una parola che non ci appartiene, e dobbiamo opporre la nostra ferma volontà di autodeterminazione culturale.
“Femminismo” e “maschilismo” sono due termini di uguale origine ma che hanno preso due strade ben diverse. La prima, da insulto, è diventata emblema di giusta lotta, di emancipazione, di libertà e di valori positivi. La seconda è diventata invece sinonimo di suprematismo, di oppressione, ed è presto assurta al ruolo di insulto.
Perché questo destino così diverso? Perché “maschilismo” in Italia è diventato un neologismo semantico, mentre in altre lingue, ad esempio in inglese, i corrispondenti “masculism” e “masculinism” hanno un significato speculare a quello di “feminism”?
Perché il maschilismo in Italia è diventato sessismo, mentre il femminismo non lo è?
Penso che la ragione vada ricercata in casa dei nostri colonizzatori. Dopo i movimenti degli anni ’60 e ’70, verso la fine degli anni ’80 sono apparsi negli USA i primi corsi universitari di “gender studies” consacrati alla riscrittura in chiave femminista della letteratura storica, sociale e scientifica.
Questa grande operazione ha generato una narrazione unilaterale della storia dell’umanità come una sistematica e ininterrotta oppressione del genere maschile su quello femminile.
Come tutte le narrazioni unilaterali, neanche questa mi convince. Davvero gli uomini hanno sempre oppresso le donne? In tutte le epoche? In tutte le culture? È sufficiente la maggiore forza fisica maschile a giustificare questa millenaria oppressione? Davvero le donne non hanno mai detenuto alcun potere?
Per quel che mi riguarda, per ciò che ho studiato, visto e vissuto, posso onestamente rispondere di no a tutte queste domande. Ma se anche rispondessi di sì, la somma di due torti non fa una cosa giusta.
Dobbiamo fare attenzione a non trasformare le vittime di oggi negli aguzzini di domani. La storia e la cronaca sono piene di pessimi esempi del genere.
Ecco perché ogni tanto dobbiamo soffermarci a “fare il tagliando” alle parole. Dobbiamo fare attenzione a non cadere in un baratro di pregiudizi e di etichette. Dobbiamo fare attenzione a non lasciare in eredità alle nuove generazioni un pesante carico di rancori.
L’Assemblea Natzionale Sarda alla quale ho aderito è – mi ripeto – un’organizzazione inclusiva e plurale nella quale nessuno deve avere paura di dire ciò che pensa.
Abbiamo, prima ancora del diritto, il dovere di forzare i limiti delle parole, dei concetti e delle idee. Abbiamo il dovere di sfidare il conformismo semantico e linguistico, come primo passo per sfidare il conformismo sociale e politico. Abbiamo il dovere di rendere fattuale il nostro spirito d’indipendenza.
Non è la libera espressione del pensiero a generare odio e violenza, ma la sua negazione. I regimi totalitari sono terreni di coltura di violenza proprio perché ingabbiano il dissenso.
Il nuovo mondo caotico e individualistico sta facendo emergere un nuovo bisogno d’ordine e di sicurezza. Ma dobbiamo stare attenti perché, come diceva Benjamin Franklin, colui che rinuncia alla libertà per avere sicurezza, non merita né l’una né l’altra.
Il conformismo sociale, che ha origine nel bisogno di approvazione e viaggia sulle ali del politicamente corretto, può diventare pericoloso. Pur riconoscendo le nuove sensibilità di una società in evoluzione, dobbiamo vigilare perché questo non diventi autocensura o censura preventiva sul pensiero e sulle parole.
Come ha scritto Ross Anderson sul Times, dobbiamo vigilare perché non si crei “un’atmosfera di caccia alle streghe e un nuovo maccartismo”, un clima nel quale vi sono opinioni lecite e altre illecite, opinioni consentite e opinioni che non si possono né detenere né tantomeno esprimere.
Non faremo questo errore. Vigileremo perché la nostra associazione sia come il tempio di Gerusalemme nel racconto di Luca, che accoglieva farisei, pubblicani, ladri, adulteri e prostitute.
Mi scandalizzerebbe il contrario.
Foto de presentada: Glenn Carstens-Peters on Unsplash