Bilinguismo: arretramento del sardo, diglossia e risardizzazione (parte 1 de 2)
Pro sa Die Internatzionale de sa Limba Mama acasagiamus un’artìculu de Roberto Bolognesi. Est unu resumu de unos cantos capìtulos de su libru suo Le identità linguistiche dei Sardi (Condaghes, 2013).
Parte 1 de 2. Inoghe agatas sa segunda parte Bilinguismo: Italiano Regionale di Sardegna e Rendimento scolastico.
de Roberto Bolognesi
In Sardegna troviamo una situazione linguistica relativamente complessa. Accanto al sardo propriamente detto, cioè l’insieme di dialetti locali che costituiscono il macrosistema linguistico sardo, troviamo anche altre lingue che non si sono sviluppate direttamente dal latino, ma sono state introdotte, a partire dal Medioevo, da immigranti provenienti da altre aree linguistiche: il sassarese, il catalano di Alghero, il gallurese e il tabarkino.
A questa situazione linguistica, già di per sé articolata, si è poi sovrapposto, a partire dal 1760, l’italiano, quale lingua ufficiale: dell’istruzione, in un primo momento, e poi anche dello stato, quel Regno di Sardegna, da cui poi sarebbe nato lo stato italiano.
Le varie lingue presenti da secoli in Sardegna hanno sempre convissuto, una a fianco all’altra, ciascuna nella propria enclave etnico-territoriale. A partire dal secondo dopoguerra, l’italiano, invece, ha cominciato a penetrare tutti gli aspetti della vita sociale nell’intero territorio isolano e a sostituirsi alle lingue autoctone, superando gli schemi e le situazioni prescritti fino ad allora per il suo uso dalla vigente situazione di diglossia.
Mentre fino a quel momento, l’italiano aveva convissuto con le lingue autoctone dell’isola, rimanendo, data la situazione di diglossia, relegato quindi alle occasioni e situazioni ufficiali e formali, a partire dagli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, la lingua dello Stato ha cominciato a invadere anche la vita privata dei Sardi. Questa nuova situazione ha prodotto una crisi interna a tutte le altre lingue presenti in Sardegna e ha fatto entrare in crisi anche i rapporti tra le diverse varianti del sardo. La situazione di diglossia, esistente fino a quel punto, si è modificata in una di bilinguismo verticale [1]: l’uso del codice linguistico dominante (l’italiano) ha cominciato a penetrare, pur pesantemente influenzato dal sardo, anche in quei contesti e situazioni fino ad allora riservati esclusivamente al sardo (e alle altre lingue sarde nelle loro rispettive enclaves) e a essere appreso come L1.
Un po’ alla volta, il “sardo” è arretrato nella scala sociale, passando da dialetto locale a socioletto delle classi (rurali) subalterne. Il mancato contributo del ceto intellettuale ha impedito per decenni che il lessico e i registri del sardo si adeguassero ai tumultuosi sviluppi sociali e culturali che seguirono nei due secoli successivi all’introduzione dell’italiano, accentuando indirettamente le connotazioni localistiche e socialmente marginali dei dialetti del sardo. Michelangelo Pira [2] pone la questione nei termini seguenti: «Sull’evoluzione del sardo ha pesato, però, non soltanto, la ridotta quantità della massa parlante bensì anche l’isolamento e la disgregazione di questa massa in villaggi poco comunicanti fra di loro e, ancora, l’esclusione di questa massa dall’uso di importanti strumenti del comunicare, come la scrittura, la radio e, ora, la televisione».
Questo declassamento della lingua ha convinto un numero sempre crescente di genitori – soprattutto le madri -ad abbandonare il sardo nell’interazione con i propri figli, per passare a una lingua che ritenevano desse più possibilità di successo ai ragazzi.
Come si è visto anche dal Rapporto Euromosaico [3], il rifiuto della lingua sarda è un rifiuto totale di tutto ciò che con essa viene identificato. Per i giovani, al rifiuto conscio di una lingua che viene identificata come espressione di un mondo arretrato economicamente e culturalmente, si aggiunge spesso la profonda ignoranza di questo mondo “tradizionale”. Il rifiuto traumatico della propria lingua e identità subìto a scuola, e al di fuori di essa, ha spinto i genitori (e l’ambiente circostante) alla rinuncia di un’identità legata alla lingua, alla storia e alla cultura locali e ha proiettato i ragazzi di oggi, loro figli a cui evitare gli stessi traumi, in un vuoto che anche linguisticamente è stato riempito alla meno peggio da una scuola latitante e dai modelli proposti dai mass-media, entrambi troppo lontani dalla loro realtà per poter essere effettivamente raggiunti.
Questo rifiuto, però, si è limitato a quella porzione della lingua che è più facilmente accessibile alla coscienza (il lessico), lasciando praticamente inalterata tutta quella porzione (la grammatica) di cui, secondo la definizione data da Noam Chomsky, abbiamo soltanto una conoscenza tacita. È come se il sistema linguistico finora negato (il sardo) si sia vendicato e continui a vendicarsi “inquinando” il sistema linguistico egemone. E questo in un periodo in cui, da almeno dieci anni e oltre, l’interazione linguistica fra genitori e figli avveniva già fondamentalmente in “italiano” (cioè in Italiano Regionale di Sardegna [4]).
LA RISARDIZZAZIONE LINGUISTICA DELLA SARDEGNA
Il rifiuto della lingua e dell’identità sarde, naturalmente, non ha riguardato tutti i Sardi e, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, in Sardegna è cominciato a sorgere un movimento per il riconoscimento dei diritti linguistici degli isolani. Dopo decenni di iniziative e tentativi, il sardo è stato finalmente riconosciuto come lingua minoritaria della stato italiano.
Il seguente, è un estratto da un documento ufficiale pubblicato sul sito della Regione Autonoma della Sardegna e riassume la posizione giuridica di cui gode attualmente il sardo: «La coscienza linguistica popolare si “sveglia” soprattutto negli anni Settanta del secolo scorso quando pone il problema a livello politico Antonio Simon Mossa. Ma una proposta di legge di iniziativa popolare del 1978, sostenuta da decine di migliaia di firme, non ottiene risposta dalle istituzioni statali e regionali se non nel 1997 con l’approvazione della legge regionale 26. Intanto nel 1990, il nuovo ordinamento delle autonomie locali consente a province e comuni di riconoscere la lingua sarda quale lingua del territorio e dell’istituzione locale. L’approvazione della Carta Europea delle Lingue, nel 1992, apre nuove prospettive anche in Italia che, nel 1999, approva finalmente la legge n. 482 che inserisce il sardo quale “lingua di minoranza storica” riconosciuta nel territorio nazionale a fianco al catalano, croato, occitano, franco-provenzale, friulano, grecanico, albanese. Ciò in attuazione dell’articolo 6 della Costituzione Repubblicana che affermava già 50 anni prima di tutelare le minoranze linguistiche».
Con la legge regionale 26/97 e con quella statale 482/99, il sardo cessa quindi di essere un “dialetto” – almeno secondo la definizione politica – e torna finalmente a essere una “lingua”. Le conseguenze di questa mutata situazione giuridica non si sono fatte attendere.
Il movimento per il riconoscimento giuridico del sardo era stato da subito accompagnato da un fiorire di iniziative volte a liberare la lingua dalla situazione di diglossia in cui era stata fino ad allora ingabbiata. Se, fino a quel momento e tranne pochissime eccezioni, il sardo era stato quasi esclusivamente lingua orale e lingua della poesia – anche quella soprattutto orale – e veniva escluso, nella scrittura, dal trattamento di argomenti contemporanei e dalla prosa, nel 1973, con la pubblicazione del primo numero del settimanale Su Populu Sardu, comincia per la lingua della Sardegna una nuova epoca. Per la prima volta dalla perdita dell’indipendenza, si assiste in Sardegna a una produzione non episodica di testi in prosa. In pochi anni seguono i primi romanzi in sardo: S’arvore de sos tzinesos di Larentu Pusceddu (Nùgoro 1982), Sa bida est amore (Siena 1982) e su Traballu est balore (Tàtari 1984) di Francesca Cambosu, Sos Sinnos di Michelangelo Pira (Casteddu 1983), Mannigos de memoria di Antoni Cossu (Nùgoro 1984).
Il sardo esce, almeno a livello della lingua scritta, dalla situazione di diglossia e da allora c’è stata una vera e propria esplosione della produzione di prosa in sardo: «Oltre [a menzionare] le duecento opere di narrativa vorrei spendere due parole sulle traduzioni dei classici in lingua sarda. Non ho dati precisi, però stimo che le traduzioni siano più di 300, forse arriviamo a 400 titoli», come ha scritto Francesco Cheratzu, direttore della casa editrice Condaghes. Per una rassegna completa delle opere in prosa scritte in una delle lingue sarde e per una critica letteraria, si veda il libro di Antoni Arca: Benidores. Literadura, limba e mercadu culturale in Sardigna, 2008, Condaghes.
E il sardo parlato viene usato ormai da alcuni decenni in occasioni altamente formali, come convegni e congressi, nei quali, spesso, chi usa l’italiano per i suoi interventi sente il dovere di scusarsi.
Inoghe agatas sa segunda parte Bilinguismo: Italiano Regionale di Sardegna e Rendimento scolastico.
[1] Tamburelli, M. Dalla diglossia al bilinguismo: note sul mantenimento del patrimonio linguistico d’Italia. In G. Agresti and M. De Gioia (eds.) L’enseignement des langues locales Institutions, méthodes, idéologies: Actes des Quatrièmes Journées des Droits Linguistiques. Rome: Aracne. 2012
[2] Pira, M. La rivolta dell’oggetto. Antropologia della Sardegna. Giuffré Milano. 1978
[3] Nelde, P.; Strubell, M.; Williams, G. (1996): Euromosaico. Lussemburgo: Ufficio delle pubblicazioni ufficiali della Comunità Europea.
[4] Lei Corvetto, I. L’italiano regionale di Sardegna. Bologna. Zanichelli. 1983