Bene il taglio delle reti, ma l’antimilitarismo non è la soluzione
De Cristiano Sabino
“Il fiore si nasconde nell’erba, ma il vento sparge il suo profumo” (Tagore).
Domenica 19 dicembre, una manifestazione convocata dall’assemblea di indagate/i solidali dell’Operazione Lince a cui hanno aderito anche diverse sigle anticolonialiste tra cui A Foras, Sardigna Aresti, Fronte della gioventù comunista e Sa Domo de Totus, si è conclusa con il taglio di circa cinquanta metri di recinzioni del poligono di Capo Frasca.
Un mese e mezzo fa, un’altra manifestazione convocata nei pressi del poligono di Teulada terminava nello stesso modo, con l’annuncio da parte di A Foras del taglio delle reti e dell’irruzione di un consistente numero di attivisti nella zona militare.
A proposito di quella irruzione, commentavo qui che si trattava certamente di una vittoria del movimento contro l’occupazione, perché falliva di fatto il tentativo di criminalizzazione da parte dell’antiterrorismo di Cagliari (DDAT) del movimento contro la massiccia presenza militare italiana e NATO in Sardegna. È un fatto che dal 13 settembre 2014 in poi, il taglio delle reti e la conseguente invasione dei poligoni militari dell’Esercito italiano si stia affermando come una prassi sempre più consolidata del variegato movimento contro l’occupazione militare della Sardegna.
Infatti, sempre a Capo Frasca, nel 2014 la grande manifestazione dei diecimila, chiamata da alcuni movimenti indipendentisti e alimentata dall’indignazione popolare per gli incendi scaturiti dalle esercitazioni della Luftwaffe tedesca e dalle immagini di un Nuraghe utilizzato come target per la sperimentazione di alcune nuove tipologie di armamenti, si concluse con l’irruzione spontanea di centinaia di manifestanti nell’area militare. Da allora in poi la pratica del taglio delle reti e del relativo blocco delle esercitazioni, è diventata una modalità assimilata dal movimento contro l’occupazione.
Ma c’è di più. Il taglio delle reti, l’irruzione nei poligoni e il blocco delle esercitazioni rappresentano di fatto anche l’unica opzione per contrastare la selvaggia e crescente militarizzazione della Sardegna. In condizioni normali, cioè di dialettica democratica, si sarebbero potute percorrere anche altre strade, come per esempio quella legale e quella della rappresentanza istituzionale, ma l’esperienza ha dimostrato che, nel nostro contesto, entrambe portano al vicolo cieco del nullismo.
Solo per rimanere ai fatti di cronaca recenti, non si può non prendere atto di due chiarissimi dati.
Il primo fatto riguarda l’impunità sancita dal processo istruito a Lanusei su impulso del Pubblico Ministero Domenico Fiordalisi contro i generali che si sono succeduti alla guida del PISQ fino al 2010. Tale procedimento è finito con l’assoluzione di tutti gli ufficiali imputati. L’esito era d’altro canto prevedibile già dalla derubricazione dell’accusa a “omissione dolosa aggravata di cautele contro infortuni e disastri“, fino alla richiesta di una condanna a 4 anni da parte del nuovo PM del processo. Per il clamoroso disastro ambientale e sanitario rappresentato dall’occupazione militare di una vastissima area, nessuno ha pagato, neppure una pena simbolica.
Da un punto di vista legale i vertici militari hanno dunque il via libera: in Sardegna si possono far brillare munizionamenti desueti di mezza Europa, usare armi sperimentali, interrare rifiuti di ogni genere, testare sistemi d’arma nocivi e svolgere qualunque altro genere di attività senza rischiare nulla penalmente. L’Esercito ha la licenza di inquinare, avvelenare, devastare la terra di Sardegna e di causare gravi problemi sanitari alle comunità che vi risiedono, perché le responsabilità non sono imputabili a un singolo individuo e ogni procedimento si risolverà con una assoluzione piena degli imputati.
E la via politica? Peggio che andar di notte. L’intera classe politica che ha accesso alle istituzioni regionali volta le spalle alla questione, praticamente senza eccezioni. Che sia di sinistra, di centro, di destra, sardista, nazionalista, sovranista o europeista, l’homus politicus sardus pare accettare come un dato naturale l’occupazione militare della Sardegna, o peggio come una ghiotta occasione da cogliere per fare avanzare carriere e consolidare posizioni di dominio.
Il 7 settembre 2019, il movimento Caminera Noa effettuava un blitz nella sede cagliaritana del PSD’AZ per ricordare al presidente Christian Solinas la linea del suo partito sulla militarizzazione della Sardegna. Riporto un brano dell’adesione del PSD’AZ alla manifestazione di Capo Frasca del 2014:
“La Direzione nazionale del Partito dei Quattromori, riunitasi recentemente ad Oristano sotto la presidenza di Giacomo Sanna, ha voluto sul punto rimarcare che la storica battaglia sardista è contro tutte le servitù militari e non ammette perciò alcuna differenziazione di paesi partecipanti e di tipologia di occupazione militare della Sardegna. Per il PSD’AZ infatti, il sistema coloniale delle servitù militari sarde deve essere interamente smantellato senza alcun distinguo, ed a prescindere da inconsistenti e strumentali differenziazioni. La Direzione sardista ha inoltre rilevato che il PSD’AZ è stato suo malgrado da oltre mezzo secolo il solitario e pressoché esclusivo protagonista di questa storica battaglia, ma sempre nella totale consapevolezza che solo attraverso la massima coesione e la profonda presa di coscienza di tutto il Popolo sardo ci sarebbe potuta essere la possibilità di vittoria. Nel rilevare inoltre come ancora oggi importanti porzioni di territorio e di popolazione siano ostaggio dei ricatti della presenza militare, da cui dipendono in maniera significativa perfino le sorti economiche di intere comunità, il PSD’AZ auspica che una numerosa partecipazione popolare alla manifestazione del 13 settembre, aiuti la stessa Giunta regionale sarda assieme ai partiti che la sostengono, a trovare finalmente la forza di superare il comprensibile imbarazzo che finora l’ha contraddistinta, tenendola inchiodata a ripetere le solite ed inconcludenti dichiarazioni di rito.”
Pochi giorni fa, il movimento A Foras, rilevava come «il Comitato Misto Paritetico, organo consultivo composto sia da militari che da civili, ha fatto presente in una nota stampa come il governatore Solinas sia in ritardo di 2 anni con le nomine delle persone responsabili per i tavoli tecnici e la cabina regia, fondamentali per potere attuare il protocollo» fra Ministero della Difesa della Repubblica e Regione Autonoma della Sardegna. Il protocollo a cui si riferisce A Foras è quel vergognoso atto d’intesa tra la Giunta Pigliaru e l’EI che – in cambio di una ratifica ufficiale della RAS all’occupazione militare dell’isola – prevedeva la dismissione e la restituzione alla Regione di alcuni terreni e immobili, con l’idea di una restituzione di questi alle comunità. Bene, l’attuale presidente sardista della Regione Sardegna non solo non batte i pugni sul tavolo per rivedere a vantaggio dei sardi quel protocollo servile firmato da Pigliaru, non solo ha archiviato le posizioni contrarie all’occupazione, ma non attua nemmeno i pochi vantaggi che questo darebbe alle comunità della Sardegna per un prima timidissima smilitarizzazione di qualche area o immobile marginale. La conclusione di A Foras è purtroppo condivisibile in maniera integrale: «non rivedremo le nostre terre senza lottare, senza essere noi a rivendicarle ed a difenderle».
Condivisibile ma con un “ma”.
Perché se la via istituzionale e la via legale non risultano a breve giro di posta praticabili, anche la via dell’avanguardia che taglia le reti senza un lavoro popolare e di radicamento è, allo stesso modo, destinata allo scacco.
E quindi?
A mio parere bisogna iniziare con l’abbandono della posizione antimilitarista. In Sardegna fare il soldato è purtroppo una prospettiva di lavoro che sempre più giovani abbracciano in assenza di alternative. Può non piacere (e a me non piace affatto), si può perfino invitare – come fece qualche anno fa l’organizzazione A Manca pro s’Indipendentzia con la campagna “Non t’arruoles. Ses sardu!” – a disertare l’arruolamento, ma non si può pensare che i militari e la vastissima rete sociale costruita intorno a loro rappresentino il target del movimento contro l’occupazione.
In questo senso era sicuramente assai avanzato il lavoro svolto da A Foras con i parenti dei militari vittime dell’uranio impoverito e di altri componenti letali presenti nei munizionamenti e nelle apparecchiature utilizzate nei poligoni. I militari ammalati e i loro parenti sono alleati del movimento contro l’occupazione, non nostri avversari. E non lo sono nemmeno i tanti giovani sardi arruolati probabilmente senza coscienza. Lo sono invece (eccome) i vertici dell’EI, i vari ministri alla Difesa e i relativi sottosegretari (spesso sardi, non a caso), i dirigenti dei partiti di maggioranza e opposizione che non sostengono la lotta contro l’occupazione, specie quelli che in teoria dovrebbero essere più vicini a noi (“sinistra”, “anticasta” e “sardisti”) e perfino il vasto mondo intellettuale sardo nella misura in cui non si esprime e non si impegna in questa vertenza.
Non entro nello specifico, ma slogan e posizioni che attaccano i militari sono strategicamente inopportuni se il nostro fine è rendere popolare la nostra battaglia. Ciò che dobbiamo chiederci a questo punto è appunto quale sia il nostro fine. Rendere popolare la battaglia contro l’occupazione e costruire una vasta area di consenso intorno alle mobilitazioni e alle azioni di disobbedienza civile, o esprimere una visione ideologica che soddisfi la nostra sete di cultura antagonistica?
Chiediamocelo in fretta e cerchiamo di offrire risposte definitive, perché il tempo stringe e la strada – oltre che in salita – è sempre più simile ad un imbuto.
Davvero un’ultima considerazione. Non è la NATO che occupa la Sardegna, o per lo meno non direttamente. Chi ha deciso di trasformare la nostra terra in un gigantesco poligono sperimentale privato, statale e internazionale è la Repubblica fondata sul lavoro e sull’antifascismo. So che è duro da accettare, ma è così!
Il bellissimo slogan “A Foras” rivolgiamolo in prima istanza a questa entità che non perde occasione di dimostrare il suo disprezzo per i diritti dei sardi, delle sarde e della nostra amata terra!
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