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Tra Sud e Sardegna: due solitudini diverse, una distanza narrativa e politica

C’è una distanza che i dati non raccontano. Una distanza che non si misura in chilometri, né in redditi pro capite. È una distanza politica, narrativa e simbolica. È quella che separa il meridionalismo storico – quello nato dopo l’Unità d’Italia, forgiato da intellettuali come Giustino Fortunato e Antonio Gramsci – dalla questione sarda, che sembra essere margini della riflessione pubblica nazionale. Una distanza che, come spesso accade in Italia, si consuma tutta all’interno della stessa periferia.

Le differenze

Nel Mezzogiorno, il meridionalismo ha significato molte cose. È stato analisi economica, denuncia sociale, racconto di comunità abbandonate. Ma è stato soprattutto una domanda di cittadinanza piena, rivolta al centro. “Noi siamo italiani, ma non ci trattate come tali”, sembrano dire le voci che affiorano dai romanzi di Carlo Levi, da certe pagine di Sciascia, dalle cronache di Gaetano Salvemini. È lo stesso grido che Leogrande raccoglieva nelle sue inchieste sulla Puglia contadina, sui braccianti, sui migranti: il grido di chi, pur riconoscendosi in uno Stato, ne denuncia la violenza dell’indifferenza.

In Sardegna, invece, la postura è diversa. La domanda non è di inclusione, ma di affermazione. Non “perché ci ignorate?”, ma “perché ci guardate così?”. La letteratura isolana – da Giulio Angioni a Michela Murgia, da Marcello Fois a Salvatore Mannuzzu – racconta un’appartenenza che non si consuma nella richiesta, ma nella distanza. Una distanza che è linguistica, culturale, storica. Una distanza che non sempre diventa conflitto, ma che non si risolve nel bisogno di essere uguali.

Nella sua “Memoria del vuoto”, Marcello Fois tratteggia un bandito che non è solo fuorilegge, ma fuoriluogo, fuori da una grammatica nazionale che non lo comprende. Come accade al protagonista de “Il disertore” di Giovanni Pirodda, che rifiuta la guerra dell’Italia coloniale e si ritira nei monti, nella macchia, in quell’interno dell’isola che sfugge alla razionalità statale. 

Il sud diserta l’attenzione, la Sardegna diserta l’appartenenza.

La narrazione meridionale ha prodotto dolore e consapevolezza. Ha denunciato lo sfruttamento, il clientelismo, la dipendenza. La Sardegna ha risposto in altro modo, spesso in silenzio. Il suo auto orientalismo non è solo il frutto del turismo, ma di un’esposizione sistematica all’occhio esterno, che ha trasformato l’isola in un’immagine: un mondo pastorale, arcaico, immobile, utile solo se narrato come margine poetico. “La Sardegna che si racconta non esiste – scriveva Michela Murgia – è quella che altri vogliono sentire”. 

E allora, nel tempo in cui l’Italia si riempie la bocca di “aree interne” e “territori marginali”, restano due voci che chiedono cose diverse. Il Sud vuole un centro che mantenga le promesse, e lo dice ancora oggi con i suoi sindacati, le sue cooperative, i suoi intellettuali. La Sardegna vuole che il centro riconosca di non essere il metro di tutto, e lo dice con le sue lotte per l’autonomia, con le sue proteste contro le servitù militari, con i suoi scrittori che non hanno mai smesso di raccontare l’isola come luogo di alterità pensante, con le assemblee che si impegnano a renderlo sforzo quotidiano.

Nel “Cristo si è fermato a Eboli”, Carlo Levi scriveva: “Nel mondo contadino il tempo si è fermato”. In Sardegna, il tempo non si è fermato. Si è semplicemente mosso su un’altra traiettoria.

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