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Confrontarsi sul concetto di nazionalità

L’identità nazionale in Sardegna non è una cosa scontata.
Come facciamo a parlarne se non abbiamo delle parole condivise per dire come vogliamo nominarci insieme?

È uscito in questi giorni un articolo di Sara Corona su Sardegna che cambia, dal titolo “Italia, Sardegna e il paradosso del nazionalismo: chi siamo quando diciamo “noi”?
Nell’articolo Corona approfondisce alcuni aspetti del conflitto tra l’identità locale in Sardegna e la nazionalità italiana.

Riprendendo le teorie del sociologo Siniša Malešević, viene sottolineato come sia importante “non confondere “l’identità nazionale” con “la nazione, il nazionalismo e la nazionalità”. Infatti condividere lo stesso nome collettivo o abitare lo stesso spazio nazionale non significa automaticamente avere “un senso di appartenenza condiviso”. In altre parole, che il nostro passaporto reciti che siamo italiani non significa che ci sentiamo tali e questo dovrebbe essere piuttosto chiaro a chiunque sia nato e cresciuto in Sardegna, dove il rapporto tra l’identità sarda e l’appartenenza nazionale è spesso vissuto in modo conflittuale”.

Come spiega Sara Corona nel suo articolo, gli orientamenti nella teorizzazione del concetto di nazione sono piuttosto diversi.
Ulteriori voci, a mio parere erroneamente non considerate come interlocutrici, vengono dal mondo degli studi di genere transfemministi, i quali criticano la società prendendo in considerazione tre elementi: il genere, la razza e le questioni di classe.
Il pensiero decoloniale si è diffuso principalmente in America Latina nel secolo scorso: è un filone critico che si riferisce al sistema-mondo, al capitalismo globale e ai rapporti di sfruttamento tra centro-periferia e semiperiferia del mondo.

Alcuni di questi studi combinano l’approccio transfemminista e quello decoloniale, mettendo in discussione i sistemi alla base della forma di pensiero necessaria alla costruzione nazionale europea e alle sue pratiche coloniali.

Critica al concetto di nazione, nazionale e al nazionalismo: la prospettiva degli studi decoloniali transfemministi

Il principio di autodeterminazione dei popoli, in teoria, si basa sull’idea che all’uniformità nazionale debba conseguire una gestione politica unitaria, eppure le derive storiche del nazionalismo hanno non di rado condotto a esiti drammatici, tradendo i buoni principi e virando verso violenze e oppressioni.
Per la filosofa Hannah Arendt i presupposti perché si possa parlare di nazione sono “l’omogeneità e il radicamento nella terra”. Questo aspetto può essere visto secondo prospettive differenti: da un lato, quella di chi condivide un senso di appartenenza basato sul principio di conformità e un forte attaccamento alla terra (in Sardegna questo elemento è ricorrente). Dall’altro si può rilevare che quella uniformità è un costrutto culturale, una scelta politica; un orizzonte da raggiungere anche attraverso la coercizione. Nazionalismo e colonialismo sono l’uno il centro operativo dell’altro.
Studi decoloniali teorizzano che il sistema di dominazione si basa su tre aspetti, grazie a cui la colonialità opera: sapere, potere, essere. Si parla dunque di colonialità del sapere, colonialità del potere, colonialità dell’essere.

La colonialità del sapere.
È legata all’egemonia dei luoghi del sapere (scuole e università, soprattutto), dove è l’esperienza storica delle élite al potere a dar conto dell’essere, del pensare e dell’agire dell’umanità. In un mondo globalizzato, conoscenza e ricerca sono funzionali al mercato: ci sono quindi saperi che valgono più di altri. Con il pretesto della modernità è stato creato l’assunto di un sapere di valenza universale: la modernità coloniale ha delegittimato i saperi di coloro che ha considerato subalterni

In Sardegna lo stato italiano costruisce e diffonde l’identità nazionale italiana attraverso i suoi organismi (scuola, amministrazioni, media eccetera), in una relazione asimmetrica di potere e mezzi con la parte di popolazione sarda che non si sente riconosciuta nella sua specificità (per lingue, culture, usi e costumi), se non come portatrice di folklore.
I modelli culturali egemoni derivanti dalla colonialità non si limitano solo a non rappresentare le minoranze, ma tolgono loro gli strumenti per parlare della propria esperienza. In Sardegna non c’è un vocabolario condiviso per raccontare i passaggi del complesso percorso di definizione di sé, dunque il processo attraverso cui ci si scopre come persone sarde nel mondo è più spesso individuale che collettivo e porta a un’oscillazione tra il senso d’appartenenza e il rigetto di qualsiasi cosa si associ alla sardità (accento, musica, lingua, eccetera).
Una delle conseguenze è che si tende a confondere ciò in cui ci si identifica (il paesaggio, monumenti o manufatti preistorici, il cibo) con ciò che costituisce in profondità l’identità culturale (la lingua, la conoscenza della propria storia, i saperi in genere).

La colonialità del potere.
Secondo l’approccio transfemminista decoloniale, la matrice coloniale del potere è europea, capitalistica, militare, bianca, cristiana, patriarcale, eterosessuale e ha nello Stato-Nazione il suo centro operativo.
I tentativi di “gestire” i flussi migratori vengono posti in essere con la promessa di sicurezza nazionale: la colonialità del potere ha creato gerarchie sia nel sistema-mondo che nelle singole nazioni e non agisce solo su ambiti come la politica estera, ma anche nel quotidiano. Il sistema che vuole garantire uguaglianza, in realtà produce discriminazione.
Antonio Gramsci descrisse come predatoria la borghesia piemontese, che saccheggiò le risorse sarde, dalle miniere alle foreste, e perseguì pastori e contadini con il pretesto di eradicare il banditismo. Dalla Sarda Rivoluzione agli scioperi delle comunità minerarie del ‘900 fino alle proteste contro la speculazione energetica, esiste un filo rosso di ribellione e dissenso che non si è mai spento e che, a più riprese, ha fatto – e fa – emergere valori contrari a quelli della cultura dominante. Esistono sacche di resistenza verso di essa: una parte di popolazione non vi si riconosce, magari si disinteressa alle vicissitudini politiche finchè non reagisce a certe forme di ingerenza esterna.
La reazione contro le “alzate di testa” della popolazione sarda è stata storicamente repressiva: questo tipo di rivendicazioni assume sempre carattere identitario, da qui l’esigenza di sabotarle e di squalificarle riconducendole a un atteggiamento di chiusura, ignoranza e ingovernabilità.

La colonialità dell’essere.
La colonialità agita nel sistema stati-nazione determina le formazioni identitarie. La relazione di subalternità crea delle condizioni di disuguaglianza anche nella possibilità di realizzare i propri desideri, che si associa all’abbandono del contesto di origine. La diaspora è quindi una delle conseguenze delle dinamiche coloniali: non si è tuttə sulla stessa barca e chi nasce in Sardegna o nel Sud Italia interiorizza l’idea di aver avuto la sfortuna di abitare una periferia, da abbandonare il prima possibile per potersi realizzare, per raggiungere un centro ideale, dove le cose importanti e significative accadono.
La proposta decoloniale fa, di contro, emergere un essere decoloniale che pensa, parla, e produce sapere, un soggetto sociale, collettivo e politico che si esprime a partire da un margine che può essere luogo di r-esistenza e restanza, nuovo centro.

Per la scrittrice e attivista femminista Brigitte Vassallo, la nazione è l’espressione amministrativa dell’unione di persone che si riconosce in codici comuni, ma quell’unione è una finzione, perché la nazione non sarebbe progettata per unire le persone uguali, ma per riunire le diversità sotto un miraggio di uguaglianza, sicurezza, felicità.
In quest’ottica, il sistema rappresentato dallo Stato-nazione si basa sull’esercizio di varie forme di oppressione e, come afferma Audre Lorde, scrittrice, professora, poeta, femminista intersezionale, non si possono usare gli strumenti del padrone per smantellarne la casa: usare gli stessi strumenti dell’oppressore (o, in questo caso, gli strumenti del sistema di oppressione) non sarebbe utile a costruire qualcosa di diverso. Perciò rivendicare di formare uno stato indipendente sulla base della convinzione di essere una nazione, non risolverebbe i problemi della società, ma replicherebbe pratiche di oppressione e di esclusione.

Viene da domandarsi quale posto potrebbero chiamare “casa” le persone nate in Sardegna che, nell’ampio spettro delle identità, si sentono “ibride”. Socializzate e alfabetizzate solo come italiane, magari da adulte si rendono conto che il paradigma culturale che hanno assimilato non è frutto di una libera scelta, ma non sono nemmeno conformi alle caratteristiche che si associano all’identità sarda (perché sono nate e cresciute in città, non parlano il sardo, eccetera). Non abbastanza sarde, troppo italiane per essere esenti da pratiche di esclusione o di discriminazione.
Essere in conflitto con la nazionalità scritta sul passaporto non comporta necessariamente il rigetto di tutto ciò che rappresenta: l’esito non è lo stesso per tuttə e non sono affatto certa che esitano caselle da spuntare per ricevere un patentino che stabilisca se si è a buon punto o meno con il percorso di coscienza identitaria.
È uno spettro, appunto. L’essenza nazionale (segnata dal potere) verrebbe comunque decisa da un gruppo maggioritario, anche nel caso delle nazioni senza stato.

Tuttavia non è detto che l’idea di nazione debba corrispondere per sempre necessariamente al costrutto politico e socio culturale degli Stati di matrice otto-novecentesca.
Non viviamo in un mondo idilliaco senza frontiere: è giusto rinunciare (o chiedere di rinunciarvi) alla lotta per l’autodeterminazione in virtù della prospettiva della scomparsa dei confini e degli Stati-nazione come li conosciamo?
Se non con quelle che esistono, con quali parole possiamo parlare di come, in quanto persone sarde, ci vogliamo nominare individualmente e come collettività?

Se da un lato è condivisibile auspicare che si avvii un percorso di ridefinizione dei principi fondanti delle società e della convivenza nel rispetto delle diversità, dall’altro non è altrettanto legittimo riconoscere il diritto a lottare per autogovernarsi? Non è giusto difendere la volontà di avere uno stato proprio?
Anche “soltanto” per poterlo, un giorno, decostruire.


Bibliografia essenziale:
Rachele Borghi “Decolonialità e privilegio”
Claudia Fauzia, Valentina Amenta “Femminismo Terrone”
Lugones, Jménea-Lucena Tlostanova “Genere e decolonialità”
Françoise Vergès “Un femminismo decoloniale”
Brigitte Vassallo “Per una rivoluzione degli affetti”

Immagine: italiachecambia.org

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