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Costa Smeralda tra visione e contraddizioni: l’eredità di Aga Khan e l’idea di Sardegna

La morte del principe Karim Aga Khan IV ha riacceso, com’era prevedibile, il dibattito sulla Costa Smeralda, trasformandolo in un’arena di scontri ideologici e polemiche senza sfumature. La proclamazione del lutto regionale ha diviso l’opinione pubblica: da un lato chi vede in Aga Khan un benefattore che ha trasformato la Gallura in un simbolo internazionale di lusso e progresso; dall’altro chi lo accusa di aver cementificato la Sardegna e di aver alimentato un modello economico coloniale. Il dibattito riflette una tensione irrisolta tra sviluppo e tutela del territorio. In mezzo a questi estremismi, sembra mancare uno spazio per una riflessione equilibrata, che riconosca sia i meriti sia le colpe, ma soprattutto le responsabilità locali nel percorso che ha seguito l’isola.

Il progetto della Costa Smeralda, avviato nel 1962, ha rappresentato un punto di svolta epocale per la Sardegna. La visione di Aga Khan non si è limitata a un mero investimento immobiliare: ha creato un modello integrato di sviluppo, che ha coinvolto architetti di fama internazionale e figure di spicco della cultura sarda, come Anton Simon Mossa. Grazie al suo contributo, la Costa Smeralda non è stata solo un’operazione imprenditoriale, ma un progetto architettonico e urbanistico capace di dialogare con il paesaggio gallurese, e di coniugare la modernità con il rispetto per l’identità paesaggistica e culturale del territorio, evitando le devastazioni ambientali che caratterizzano altre zone costiere della Sardegna.

Tuttavia, non si può ignorare che, dietro l’estetica raffinata e la pianificazione accurata, vi fosse un’operazione di business molto redditizia. L’Aga Khan non era un filantropo disinteressato: il suo obiettivo era creare un prodotto di lusso esclusivo, capace di attrarre una clientela internazionale d’élite. Ma questo non è necessariamente un male (per quanto possa sembrare strano a una fetta del mondo indipendentista sardo). Il problema risiede, semmai, nell’interpretazione e nella gestione che la classe dirigente sarda ha fatto di questo modello.

La crisi della politica sarda: opportunità mancate e responsabilità locali

Il successo della Costa Smeralda ha dimostrato il potenziale della Sardegna in termini di innovazione e sviluppo economico. Tuttavia, ha anche messo in luce i limiti della politica sarda, incapace di capitalizzare questa esperienza per costruire un modello di sviluppo sostenibile e autonomo. La classe dirigente sarda, priva di una visione politica di lungo periodo, ha spesso scelto la via più facile: replicare il modello smeraldino senza la stessa attenzione per la qualità architettonica e ambientale, cedendo a una speculazione selvaggia che ha deturpato il territorio e svuotato di significato il concetto stesso di sviluppo.

In questo senso, il problema non è stato tanto l’Aga Khan quanto l’incapacità della Sardegna di dotarsi di una classe politica forte e lungimirante, di formare un’imprenditoria capace e consapevole, di guidare il capitale estero verso uno sviluppo rispettoso dell’identità e delle risorse locali. Figure come quella di Anton Simon Mossa rappresentavano un’epoca in cui la Sardegna aveva ancora intellettuali e politici capaci di riflettere sul futuro dell’isola con una prospettiva culturale e sociale. Oggi, questa capacità sembra essere venuta meno, sostituita da una politica lenta, prona e priva di coraggio. Priva di visione.

La questione della Costa Smeralda è, in ultima analisi, una questione di responsabilità. È facile attribuire tutte le colpe agli investitori stranieri, ma sarebbe più onesto riconoscere le mancanze interne. L’indipendentismo sardo, se vuole essere credibile, può e deve inserirsi in questa riflessione, maturando nella capacità di analisi, indicando una linea che smetta di rifugiarsi nella narrazione del “popolo oppresso”, per guadagnarsi la responsabilità delle scelte e delle opportunità. Autodeterminazione significa anche prendersi carico degli errori altrui e imparare da essi. Per questo, è necessario riscoprire i tre pilastri fondamentali di una politica sana: libertà, responsabilità e solidarietà. La libertà di scegliere il proprio percorso di sviluppo non può prescindere dalla responsabilità di tutelare il territorio e l’identità culturale. E la solidarietà deve essere il collante che unisce le diverse anime dell’isola, evitando che le disuguaglianze economiche e sociali diventino barriere insormontabili.

Verso un nuovo momento di riflessione, verso una Sardegna più consapevole.

La morte dell’Aga Khan rappresenta un’occasione per riflettere non solo sull’impatto del suo progetto, ma anche sulla direzione che la Sardegna intende prendere nel proprio percorso di sviluppo. La Costa Smeralda ha dimostrato che il capitale estero può trasformare territori e comunità, ma ha anche rivelato quanto sia fondamentale il ruolo della classe dirigente, della politica e della società locali nel governare questi cambiamenti. Gli investitori esteri continueranno a influenzare il futuro dell’isola, com’è naturale e necessario in un mondo interconnesso. Tuttavia, il vero snodo sta nella capacità della Sardegna di esercitare la propria autodeterminazione politica, economica e culturale. Non si tratta di opporsi al capitale globale, ma di saperlo indirizzare, integrando sviluppo e identità senza subire passivamente i processi esterni.

L’esperienza della Costa Smeralda, arricchita dal contributo di figure come Anton Simon Mossa, ha mostrato che è possibile coniugare innovazione e rispetto del territorio. Tuttavia, l’incapacità di replicare questo equilibrio altrove ha evidenziato i limiti di una classe dirigente priva di visione e coraggio. La Sardegna ha bisogno di una politica che sappia guardare al futuro, evitando di cadere in vecchie dinamiche di dipendenza o di sterile opposizione.

Questa riflessione sul futuro della Sardegna non può prescindere da questioni attuali come quella delle servitù militari, che ancora oggi occupano vaste porzioni del territorio isolano, limitando non solo l’uso civile delle terre ma anche uno sviluppo economico alternativo. Allo stesso modo, la speculazione energetica rappresenta una nuova frontiera del rischio di sfruttamento del territorio, con progetti che spesso ignorano le esigenze e le peculiarità locali. Questi temi, se affrontati con la stessa capacità critica e progettuale dimostrata nella prima fase dell’esperienza della Costa Smeralda, potrebbero trasformarsi in opportunità di sviluppo duraturo, responsabile e autodeterminato. Ecco perché l’autodeterminazione non è solo un principio astratto: è la capacità concreta di decidere il proprio destino, di valorizzare le risorse interne e di costruire un’identità forte che possa dialogare con il mondo senza rinunciare alla propria essenza. Il futuro dell’isola dipenderà dalla capacità dei sardi di essere protagonisti consapevoli e non semplici spettatori del proprio sviluppo, riconoscendo il valore delle esperienze passate ma senza restarne prigionieri.

La vera domanda, dunque, non è se il modello Costa Smeralda sia stato un bene o un male, ma se oggi la Sardegna è pronta a costruire un nuovo modello che rifletta le sue ambizioni, guidato da una visione politica solida e da una società capace di autodeterminarsi nel contesto globale.

Il filo conduttore per tutti questi settori è la capacità di integrare l’identità sarda con l’innovazione. L’esperienza della Costa Smeralda ha mostrato come il rispetto per il paesaggio e l’architettura locale possa essere un valore aggiunto anche in un progetto di sviluppo moderno. Tuttavia, il modello deve essere più inclusivo e diffuso, evitando concentrazioni di ricchezza e potere nelle mani di pochi investitori esterni.

In pratica, ciò significa tener conto di alcuni elementi fondamentali: coinvolgimento delle comunità locali, sostenibilità ambientale ed economica, valorizzazione della lingua e del patrimonio storico e culturale sardo. Ogni progetto di sviluppo deve partire dal basso, dalle comunità e dalle amministrazioni locali, nella pianificazione e gestione. Ogni settore deve adottare pratiche che rispettino l’ambiente, riducano l’impatto ecologico e promuovano l’uso responsabile delle risorse naturali garantendo un vantaggio economico per chi fa impresa e per chi l’accoglie. L’identità storica e culturale può essere un elemento distintivo. Promuovere la lingua sarda e le tradizioni in modo autentico e non folkloristico può diventare un punto di forza.
In definitiva, la Sardegna ha l’opportunità di trasformare quest’esperienza in una lezione di crescita, riconoscendone tanto i successi quanto le contraddizioni. Il futuro dell’isola può fondarsi su un modello di sviluppo più equilibrato, responsabile e inclusivo. La vera sfida è l’autodeterminazione consapevole: scegliere di guidare il cambiamento con coraggio e visione, piuttosto che subirlo passivamente. Solo così la Sardegna potrà affermare la propria identità nel mondo, senza rinunciare al progresso.


Immagine: sardegna.italiaguida.it

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