La Filosofia decoloniale riempie le sale
La popolarità inaspettata della filosofia de coloniale di Filosofia de Logu
Lo scorso dieci gennaio, nella sala gremita di Su Tzirculu a Cagliari, si è svolta la presentazione di Logu e Logos, seconda collettanea del collettivo di ricerca Filosofia de Logu, pubblicata da Meltemi Editore. L’evento, organizzato dall’Istituto Gramsci della Sardegna, ha offerto una riflessione corale sui temi cruciali della storia e del presente dell’isola, intrecciando e problematizzando questioni identitarie, culturali, storiche ed economiche relative alle condizioni di subalternità dell’Isola e dei suoi abitanti.
Alessandra Marchi e Piergiorgio Serra dell’Istituto Gramsci e Alessandro Culumbu dell’Università di Westminster hanno pungolato gli autori del collettivo presenti sui diversi temi dei loro articoli, spaziando dalle analisi sul turismo di Andria Pili, dalle indagini condotte da Sara Corona sulla questione energetica intesa come questione coloniale e dalla lettura decoloniale e «sardista meticcia» di Gramsci condotta da Cristiano Sabino. Ma ovviamente, il dialogo ha presto sconfinato da questi piani, andando a toccare diversi altri punti strategici della condizione coloniale e subalterna della realtà sarda, indagando anche il rapporto tra società sarda e classi dirigenti, mobilitazioni popolari e deficit di democrazia, lingua sarda e marcatori identitari come territorio e paesaggio.
Gramsci e la lettura decoloniale della Sardegna
Uno dei fuochi fondamentali dell’intera attività del collettivo è sicuramente il tentativo di «riportare a casa Gramsci», cioè di restituire all’autore sardo la sua dimensione di critica della condizione subalterna e coloniale della Sardegna e dei sardi.
Non stupisce dunque che la discussione abbia preso l’abbrivio dalle domande che Pier Giorgio Serra ha rivolto a Cristiano Sabino sulla «provocazione» di un «Gramsci coloniale», cioè di una lettura gramsciana che ha storicamente ridimensionato o addirittura rimosso ogni traccia di critica decoloniale contenuta negli scritti dell’autore di Ghilarza sul rapporto tra Sardegna, Stato centrale e relative elites. Sabino ha spiegato i tratti generali del «sardismo meticcio» di Gramsci, una chiave interpretativa che legge la Sardegna non solo come una regione periferica all’interno dello Stato italiano, ma come una vera e propria colonia interna. Dialogando con Serra Sabino ha sottolineato come Gramsci, pur essendo un intellettuale che ha operato prevalentemente sul piano statale e internazionale, abbia saputo cogliere e descrivere le dinamiche di sfruttamento economico e culturale vissute dalla Sardegna, tema che costituisce in effetti il suo punto di partenza e che Gramsci non abbandonerà mai nel corso della sua riflessione, pre carceraria e carceraria.
Nei Quaderni del carcere, Gramsci descrive la Sardegna come una “periferia arretrata”, una realtà che l’Italia liberale e poi fascista ha inglobato in un sistema di subordinazione economica, riducendo l’isola a fornitrice di risorse e a «colonia di sfruttamento» per le aree più industrializzate del Nord.
Passando al controverso tema dell’identità Sabino ha proposto lo sguardo gramsciano che concepisce l’identità nei termini di una realtà dinamica e dialettica. La cultura popolare, per Gramsci, non è un’entità statica da preservare, ma un campo di lotta, un luogo in cui si sedimentano storie di resistenza e di confronto con l’altro.
Il colonialismo interno e la subalternità culturale
Ma i dialoghi gramsciani sono risultati trasversali allo specifico dibattito sugli interessi «sardisti meticci» di Gramscie alla discussione sul contributo gramsciano di Sabino. Un punto centrale di tutta la serata è stato infatti il concetto di matrice gramsciana di subalternità, applicato alla condizione culturale e politica della Sardegna, in tutte le sue pieghe e risvolti. Analizzando i vari aspetti, legati all’attualità e relativi alle varie dimensioni di vita associata dell’isola, torna costantemente il tema dell’esclusione dei subalterni sardi dai processi di costruzione del potere e della narrazione culturale dominante. In Sardegna, questa subalternità si è manifestata storicamente attraverso un preciso stigma identitario, che ha portato alla svalutazione della lingua e della cultura sarda, presentate come arretrate o folkloristiche e oltretutto ad uno svuotamento progressivo delle leve democratiche dei corpi intermedi che ha portato ad una vita sociale e civile impoverita e pesantemente condizionata da ristretti gruppi di pressione e potere che spesso agiscono direttamente al servizio di interessi esterni.
I tre autori del volume hanno messo in luce come questa dinamica di marginalizzazione sia stata funzionale al progetto di costruzione dello Stato-nazione italiano, che ha negato le peculiarità linguistiche e culturali dell’isola per imporre un’identità fittizia unitaria centrata su Roma e sul Nord Italia. In questo contesto, la rilettura decoloniale del pensiero gramsciano proposta da Filosofia de Logu si pone l’obiettivo di trasformare i marcatori identitari sardi in strumenti di resistenza e progettazione politica.
Uno degli interventi più analitici della serata è stato quello di Andria Pili, che ha presentato una sintesi del suo contributo al volume Logu e Logos. Al centro della sua analisi si colloca una critica decoloniale del turismo in Sardegna, volta a smontare alcuni assunti profondamente radicati nel senso comune e nel dibattito politico: che la Sardegna debba o possa vivere di turismo, che questo possa essere un volano per l’economia isolana, o addirittura che il turismo rappresenti una vocazione “naturale” dell’isola.
Pili ha ricostruito il quadro teorico della critica post- e decoloniale al fenomeno turistico, mostrando come il turismo, sin dai suoi albori moderni, sia stato caratterizzato da una relazione coloniale strutturale. I luoghi percepiti come “non sviluppati” sono stati idealizzati come fuga dalla civiltà industriale, costruiti attorno a tre miti dominanti: il mito delle grandi civiltà passate, il mito delle coste paradisiache e il mito della wilderness, ovvero dei luoghi incontaminati e selvaggi.
Questa dinamica, ha spiegato Pili, persiste ancora oggi. Il potere economico e decisionale continua a risiedere nel Nord globale, che controlla i flussi turistici attraverso la maggiore capacità di acquisto e il dominio delle infrastrutture del turismo globale (tour operator, investimenti, marketing). Le economie del Sud, intrappolate in problemi strutturali, tendono a conformarsi a questi modelli, promuovendo immagini idealizzate di sé stesse per attrarre turisti e garantire l’ingresso di valuta forte.
La Sardegna non fa eccezione. La storia del turismo nell’isola, dai viaggiatori del XIX secolo fino alla creazione della Costa Smeralda, è segnata da una relazione asimmetrica con il Nord Europa e, in particolare, con il Nord Italia. L’immagine turistica della Sardegna è stata costruita intorno al mito dell’interno selvaggio e delle coste incontaminate, contribuendo a consolidare una narrazione esotizzante. Pili ha evidenziato come, con il declino della Rinascita economica e la crisi del petrolchimico di Porto Torres, si sia affermata e legittimata l’idea del turismo come alternativa economica, un processo che ha portato al passaggio dallo stigma identitario alla mercificazione di elementi della cultura sarda.
Questo legame tra turismo e interessi immobiliari spiega perché la classe politica isolana continui a perseguire tale modello, subordinandosi agli interessi della borghesia edilizia locale. L’iniziativa Sardegna verso l’Unesco, che promuove il riconoscimento del nuraghe come simbolo identitario, rappresenta un ulteriore passo in questa direzione, riproducendo il terzo mito del turismo nei luoghi colonizzati: quello delle grandi civiltà passate. Il nuraghe diventa così un marker per posizionare l’isola nel mercato internazionale delle destinazioni turistiche, legando l’identità sarda al passato nuragico e trasformandolo in una merce culturale.
L’intervento di Pili ha offerto una prospettiva critica indispensabile per comprendere come il turismo, lungi dall’essere una panacea economica, possa perpetuare dinamiche coloniali e di sfruttamento. Da questo consegue la necessità di decolonizzare il turismo, ripensare cioè radicalmente il rapporto tra Sardegna e il mondo esterno, recuperando una narrazione autonoma e rifiutando le logiche di subalternità economica e culturale.
Energia e identità: l’intervento di Sara Corona
Tra i momenti più significativi e maggiormente legati a temi di strettissima attualità della presentazione di Logu e Logos è stato l’intervento di Sara Corona, che ha intrecciato due temi centrali per la Sardegna contemporanea: il carattere coloniale della questione energetica e il ruolo dell’identità come strumento di lotta contro la subalternità.
Corona ha messo in luce come il controllo delle risorse energetiche in Sardegna rientri in un meccanismo di sfruttamento tipico delle dinamiche coloniali, in cui l’isola è concepita non come un soggetto economico autonomo, ma come un territorio da utilizzare per soddisfare esigenze esterne. Questa condizione si manifesta nella sovrabbondanza di progetti legati alle energie rinnovabili, che spesso trascurano il reale fabbisogno energetico locale per servire il Nord Italia o il Nord Europa, e nella marginalizzazione delle comunità locali nelle decisioni strategiche e nei benefici economici.
In questo contesto, l’identità assume un valore centrale, non come residuo del passato ma come strumento euristico e politico per costruire un’alternativa alla subalternità. Criticando una certa ostilità antropologia nell’utilizzo delle categorie identitarie, Corona ha difeso il ruolo dei marcatori identitari – la lingua, i simboli culturali, le pratiche comunitarie – non solo come elementi di appartenenza ma anche come leve per contrastare l’assimilazione e rivendicare una progettualità autonoma e autodeterminata per la Sardegna.
La sua riflessione si è concentrata sull’utilità politica dell’identità, intesa come terreno di scontro e resistenza. Recuperare e rivendicare marcatori identitari non significa chiudersi in un isolazionismo culturale, ma piuttosto creare uno spazio critico in cui decostruire le narrazioni dominanti e immaginare un futuro non subordinato.
L’intervento di Corona ha risuonato profondamente tra i presenti, ribadendo che una Sardegna capace di riappropriarsi delle sue risorse – materiali e immateriali – è una Sardegna in grado di sfidare le logiche coloniali che ancora oggi ne condizionano il destino.
Decolonizzare l’università e il sapere
A gamba tesa e integralmente in lingua sarda invece l’intervento di Alessandro Columbu, che ha posto al centro della discussione il tema della decolonizzazione dell’Università e delle istituzioni culturali. Columbu ha evidenziato come l’istituzione universitaria, in Sardegna e altrove, sia spesso permeata da paradigmi eurocentrici e schiettamente coloniali che replicano dinamiche di dominazione culturale. Columbu ha esplicitamente chiesto al collettivo Filosofia de Logu di incarnare questa esigenza diffusa di portare la critica decoloniale in ambito universitario, perché l’Università ha storicamente rappresentato la centralina ideologica e teorica della costruzione di discorsi coloniali e subalterni.
La popolarità inaspettata dei temi decoloniali
Al di là dei temi, ciò che ha colpito della serata a Su Tzirculu, è la capacità di attirare un pubblico variegato e molto coinvolto, che circa due ore ha seguito con grande attenzione la discussione tra i relatori. Ciò significa che esiste una grande domanda di analisi approfondita sui temi della subalternità e di approfondimento dei tratti salienti di una cultura decoloniale autentica. In questa prospettiva, Logu e Logos di Filosofia de Logu non è solo un’opera accademica, ma un manifesto per una Sardegna che aspira a emanciparsi dalle logiche di dipendenza e sfruttamento. Un testo che, come la serata del 10 gennaio, invita a riflettere senza pregiudizi sul passato e a impegnarsi per un futuro più libero e consapevole.