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Intervista a Riccardo Pisu Maxia post Fàulas 24

Ciao Riccardo. Si è appena tenuta la terza edizione di “Fàulas – il festival che ribalta i luoghi comuni sulla Sardegna” organizzato da ANS – Assemblea Natzionale Sarda per raccontare la realtà sarda da un punto di vista più cosciente rispetto alle frasi fatte che spesso sentiamo dire o noi stessi diciamo. Com’è andata quest’anno? Quali sono le tue sensazioni da Presidente dell’Assemblea?

Ciao Ivan. La mia sensazione è che Assemblea Natzionale Sarda abbia realizzato ancora una volta qualcosa di importante. Nella tua domanda hai ben descritto il significato e l’intenzione di Fàulas: imparare a raccontarci per quello che noi sardi siamo realmente. Il festival, infatti, nasce anche per fornire una contro-narrazione su noi stessi da opporre a quelle superficiali che siamo abituati a leggere e sentire. 

Abbiamo bisogno di prendere coscienza di quello che siamo noi sardi come popolo, conoscere meglio la terra in cui viviamo, e imparare a stare al mondo da sardi, né migliori né peggiori di altri.

Non ho risposto alla domanda su com’è andata, ma mi piaceva sottolineare le motivazioni che ci avevano portato 3 anni fa a ideare Fàulas e che ci spingono dopo 3 anni a continuare a voler lavorare in favore di una nuova percezione.

Va benissimo così, ci arriviamo subito perché è interessante capire, a proposito dell’ultima cosa che hai detto, se questo messaggio sta “passando”. Lo possiamo misurare attraverso i numeri di Fàulas 2024?

Beh, in qualche modo sì, dato che tre edizioni di fila, per giunta tenutesi nello stesso posto, sono una buona base dalla quale raccogliere dei dati. I numeri dicono che Fàulas 2024 è stata un successo è che la crescita è assolutamente riscontrabile. Fàulas è cresciuto in tutto: come numero di eventi, come numero di ospiti, come numero di soci coinvolti nell’organizzazione e, per rispondere finalmente alla tua domanda, come numero di pubblico presente agli eventi. E anche la stampa ha dedicato a Fàulas molte più attenzioni rispetto agli anni passati.

Al di là dei numeri fatti a Oristano il 5 e 6 ottobre, mi interessa riportare anche quella che è la percezione del festival, ossia le tante persone che sapevano del festival e ci hanno chiesto come fosse andata oltre a essersi dispiaciute di non aver potuto partecipare. Raccoglieremo i dati anche sulle visualizzazioni che faranno i contenuti online che abbiamo iniziato a pubblicare. 

È chiaro, poi, che i dati non ci danno alcuna informazione in termini di efficacia del messaggio. Sfortunatamente non esiste l’equazione “partecipazione a Fàulas uguale presa di coscienza”, non è così matematico purtroppo. Ci portiamo a casa i complimenti e i “mi avete dato da riflettere” ma siamo consapevoli del fatto che il lavoro che Assemblea Natzionale Sarda porta avanti da 5 anni sia una semina lenta, costante e paziente.

Ci capita, a volte, che qualcuno scambi il nostro attivismo politico apartitico per “custodia delle tradizioni sarde”, “fissazione sulla lingua”, “esaltazione della storia della Sardegna”: una via di mezzo tra un circolo dei sardi e una ProLoco sovracomunale. Non siamo questo. 

Abbiamo dalla nostra il vantaggio di non essere un partito e, dunque, di non essere visti come quelli che propagandano idee in cambio di voti. Ma per farci conoscere abbiamo bisogno di continuare a crescere nei territori, di essere presenti, di fare eventi nel corso dell’anno e di invitare le persone a partecipare con curiosità. Parlare, confrontarsi, e instillare dubbi che fino a quel momento non ci si era mai posti ci aiuta talvolta a fare breccia affinché germogli un pensiero alternativo. Nel caso di una due giorni di eventi intensa come Fàulas, in cui a parlare sono esperti e professionisti, è un’esperienza ancora più forte; per molti è come ricevere una serie di strattonamenti che mettono sottosopra tutte le convinzioni che si avevano fino a quel momento.

Com’è il rapporto con la città di Oristano che ospita l’evento? 

Anche il rapporto con la città di Oristano è in crescita. Il lavoro portato avanti negli anni ha fatto sì che per questa edizione anche il Comune si sia interessato a Fàulas. E Fàulas ha ricambiato con dei numeri importanti, di cui l’economia della città ha decisamente beneficiato. Mi riferisco ai 310 pasti consumati nel fine settimana, agli 80 posti letto occupati, alle centinaia di persone che hanno riempito le strade della città di Oristano attratti dalle bandierine gialle, verdi e viola. 

Gli eventi quest’anno sono stati quasi il doppio rispetto all’anno scorso. A ospitarli sono stati: il Teatro Garau sabato sera, il Teatro San Martino la domenica, i locali LoLaMundo, Aroma Cafè e Birroteca Il Gatto con gli stivali.

Hai citato gli eventi, entriamoci nel merito: si è parlato di energia e transizione?

Sì, innanzitutto quest’anno abbiamo proprio dedicato l’edizione di Fàulas al tema ambiente. Sono stati diversi gli eventi in cui si è affrontato il tema della transizione energetica in Sardegna e il suo carattere di speculazione e di colonizzazione.

Già dal primo evento della mattina di sabato, ossia l’estemporanea di pittura che ha coinvolto i ragazzi del Liceo Artistico la questione è venuta fuori. Avevamo infatti chiesto ai ragazzi di realizzare delle tele a tema “fàulas sul paesaggio sardo” e molti di loro, in totale autonomia, hanno disegnato paesaggi contaminati e deturpati.

Sempre il sabato, l’evento in collaborazione con il collettivo Filosofia de Logu, che ha coinvolto i ragazzi del Liceo di Scienze Applicate è stato l’occasione per parlare di sensibilità ambientale.

Nel primo pomeriggio, lo hanno fatto anche Alessandra Cossu e Fabrizio Bibi Pinna, i due fotografi (tra le altre cose) di siti archeologici che si danno tanto da fare per contrastare la narrazione che vuole la Sardegna come “solo mare”.

Mi vengono in mente anche lo spettacolo teatrale “Il Pubblico Bene” di Simone Azzu e Martino Corrias, che è incentrato sul colonialismo ambientale e la performance del cantante e cantautore Bandito, che ha addirittura scritto e cantato un pezzo su ciò che sta succedendo in Sardegna.

Quali sono invece le fàulas più ricorrenti legate alle servitù in Sardegna? 

Anche is fàulas legate alle servitù in Sardegna non mancano, purtroppo. Ciò che sentiamo dire sempre è che “le basi militari portano lavoro”, “le basi militari creano un indotto importante”. È stato interessante, in questo senso, un passaggio di Giovanni Gusai, uno dei sei talker che hanno parlato sabato sera al Teatro Garau: “in quest’isola abbiamo più militari stranieri che banditi”.

Poi si dice è che è giusto che la Sardegna ospiti più del 60 percento di tutto il demanio militare italiano perché “è una terra scarsamente popolata”, e perché “quelle terre erano delle pietraie, incoltivabili”.

E un’altra cosa, molto più grave, è che “le basi militari non arrecano alcun problema alla salute” e che, se nella zona intorno a Perdasdefogu c’è un’alta incidenza di tumori, è perché “i sardi tendono a sposarsi tra cugini e parenti”.

Quali altre tematiche sono state affrontate?

Tra i talker, il geografo e cartografo Matteo Cara ha voluto sfatare il luogo comune secondo cui la Sardegna è una terra selvaggia e incontaminata. La studiosa di antropologia Luana Cau ha voluto ribaltare la convinzione secondo cui la Sardegna potrebbe vivere di solo turismo. È stato molto interessante il talk della sociologa Ester Cois, che ha voluto fare chiarezza su ciò che spesso si dice intorno alla società sarda, ossia al fatto che sia (o che sia sempre stata) matriarcale. E anche Jessica Cani ha fatto un talk molto interessante dal titolo provocatorio di “In Sardegna non c’è niente”.

La domenica mattina è stato interessante sentire Francesca Loi, ricercatrice dell’osservatorio astronomico di Cagliari che ha sfatato il mito secondo il quale in Sardegna non si può fare ricerca o che per fare ricerca bisogna andare fuori dalla Sardegna. Con lei e Lisa Ferreli c’erano Mauro Patta a parlare di “In Sardegna con l’arte non si mangia” e Michela Anedda che ha raccontato della sua serie animata intitolata proprio “Fàulas”.

C’è stato, poi, modo di parlare di lingua, causa sempre molto calda in Sardegna. Lo abbiamo fatto insieme all’etnomusicologo Marco Lutzu, che ha portato il suo documentario “Versi Paralleli” sul viaggio di tre poeti improvvisatori sardi nei Paesi Baschi per assistere alla più grande gara di poesia improvvisata nel mondo. Il documentario ha dato diversi spunti che sono stati affrontati subito dopo nella tavola rotonda coordinata da Myriam Mereu. Vi ha preso parte Aingeru Mimentza, ospite internazionale proveniente proprio dai Paesi Baschi, che ci ha raccontato qual era la situazione linguistica nella sua terra alla fine del franchismo e quali sono state tutte le politiche e tutti gli accorgimenti fatti per arrivare oggi ad avere una sensibilità linguistica che in Sardegna invidiamo.

C’era poi Flavia Floris, presidente dall’associazione Sardware, che si occupa proprio di accrescere la presenza della lingua sarda nella tecnologia, mi riferisco quindi a siti web, applicazioni e programmi. È stato molto bello sentire Gianni Loy e la sua esperienza di non madrelingua che però ha deciso di educare in sardo i propri figli e a tal proposito ha anche scritto un libro.

Insomma, i temi affrontati sono stati tanti, ma non sono mancati i momenti di distensione e di svago, come le cene insieme ai soci di ANS e agli ospiti che si sono intrattenuti per rispondere a domande e curiosità del pubblico, e soprattutto i concerti dal vivo di Forelock e di Arrogalla.

Torniamo su qualche passaggio. Hai toccato tanti temi, tra cui “i dubbi che i sardi non si sono mai posti” e “in Sardegna abbiamo un problema a raccontarci”. A cosa lo dobbiamo? Dove sono da ricercare le responsabilità? 

Non è tutta colpa nostra. Lo è solo nella misura in cui veniamo invitati a studiare la nostra storia, la nostra la lingua, la nostra geografia, la nostra economia e, pur avendone la possibilità, decidiamo in autonomia di non studiarle. 

Il resto delle responsabilità sono della politica, a tutti i livelli. Se la scuola italiana ci educa come cittadini senza coscienza del territorio in cui nasciamo è per una precisa volontà. Se nessuno protesta per questo, se nessuno fa pressione, un giovane studente non si porrà dei dubbi, ossia non penserà mai di chiedersi se quello che sta apprendendo sia giusto, sbagliato, ma penserà che sia l’unica storia possibile. Ed ecco che avrà un problema a raccontare chi è veramente.

Puoi approfondire?

Se un sardo studia una storia, una lingua, una geografia, un’economia che non sono le sue, succede che si percepisca lontano dal “centro”, inteso come “luogo dove succedono le cose”, e si considera “di serie B” rispetto a chi vive oltremare. Si sente nato “nella parte sfigata” dello Stato di cui fai parte. Così, succede che connota, ad esempio, l’essere isolani come essere isolati. O, peggio, arriva a sviluppare una forma di risentimento verso chi lo ha fatto nascere in questa terra.

Poveri inglesi, scozzesi, gallesi, irlandesi, islandesi, maltesi, greci, cretesi, ciprioti, corsi, neozelandesi, allora? Sono tutti sfigati?

Ovviamente non è così. La percezione che molti sardi hanno di loro stessi è purtroppo totalmente errata: essere un’isola non è un problema, specialmente se sei la seconda isola più grande del Mar Mediterraneo, di cui ti trovi al centro. Il problema non è geografico, è politico. Ed è legato a chi governa, e quindi da chi, noi sardi, decidiamo di farci governare. La condizione geografica non ti isola, ti isola la mala gestione degli spostamenti via terra e via mare, specialmente con la velocità dei trasporti che abbiamo nel 2024. Tant’è che non ho mai sentito gli inglesi o gli irlandesi maledire il fatto di essere isolani.

Stai dicendo che è un problema di auto percezione?

Sì, ci auto percepiamo inferiori. Abbiamo fatto nostra l’idea secondo la quale chi vive oltremare sia migliore, più fortunato, più moderno, più aperto al mondo, e che quindi debba essere considerato come un modello a cui ambire. I sardi che si sentono “inferiori in quanto sardi” sviluppano un desiderio malsano di somigliare alle persone che vivono oltremare in quanto esse rappresentano la norma, la civiltà, il potere; quelli “del Nord” – ben inteso – perché quelli “del Sud” noi sardi li consideriamo degli italiani ai quali non ambire, sfigati quasi quanto noi). E quindi, al fine di sentirci simili a chi vive nei luoghi “fortunati” o “invidiabili” non studiamo la nostra storia, non parliamo più la nostra lingua, modifichiamo il nostro accento e la nostra cadenza, non conosciamo più il nostro territorio né la sua economia e, di conseguenza, non sappiamo più raccontarci. E, tristemente, disprezziamo i nostri conterranei che fanno lavori legati alla terra e all’allevamento di bestiame. 

Fàulas ha ancora tanto lavoro da fare, allora?

Purtroppo sì, ma è evidente che Fàulas, da solo, non può risolvere il problema. Spero di vedere quanto prima una società sarda che abbia maturato una profonda coscienza di se stessa e che sappia insegnare se stessa alle generazioni future non nei festival ma nella vita comunitaria di ogni giorno e nei luoghi deputati all’insegnamento come scuole e università.

Come Assemblea Natzionale Sarda, l’augurio migliore che possiamo farci è che chi partecipa a Fàulas poi parli di Fàulas, racconti cos’ha visto e sentito e si attivi in prima persona per vedere attorno a sé una comunità sarda più cosciente.

Grazie Riccardo.

Grazie a te Ivan.


Foto: Riccardo Pisu Maxia

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