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Spoliazioni coloniali

La prassi storicamente consolidata per definire l’approvvigionamento di nuove risorse per estrarre capitale, è quello dell’esproprio forzato e della privatizzazione dei beni pubblici e del suolo negandone l’accesso e lo sfruttamento alle comunità che l’hanno ricevuto per diritto o per eredità naturale dalle generazioni precedenti.

Le enclosure inglesi del XVII secolo, così come l’editto delle chiudende in Sardegna nel XIX secolo, ufficializzano la fine dell’epoca feudale e il consolidamento di quella capitalistica.

Oltre  alla repressione del diritto consuetudinario, o di una qualsiasi altra forma di diritto pre-esistente  all’interno dei confini giuridici definiti nella forma di autonomia statutaria, questa precisa forma di spoliazione verificatasi come passaggio violento e obbligato tra i due sistemi, si è storicamente espressa nel rapporto di dominio di un governo nei confronti del popolo sottomesso. È la forma di spoliazione in regime di governo colonialista.

La legge mineraria del Regno di Sardegna emanata a Torino il 30 giugno 1840 ed estesa all’Isola dal 1848, separa i diritti dello sfruttamento del sottosuolo da quelli derivanti del suolo. Con questa nuova legge, le compagnie minerarie inglesi, belghe, francesi e italiane potranno esercitare il loro diritto di concessione e di sfruttamento minerario del sottosuolo sardo senza attendere un permesso di accesso delle comunità fino ad allora presenti e, soprattutto, senza dovere pagar dazio ad esse.

La combinazione dei due provvedimenti legislativi, quello delle chiudende prima e della legge mineraria poi, definiscono l’atto di separazione/espropriazione dei mezzi di produzione e la trasformazione del lavoro vivo, espulso dalle campagne e dagli ordinamenti pre-esistenti, in forza lavoro per le miniere da inserire nel nuovo ciclo produttivo. 

Era ciò di cui doveva assicurarsi ogni giorno il nuovo ordinamento capitalistico: l’atto dell’  esproprio per separare la forza lavoro dai mezzi di produzione, per assoggettarlo, per  addomesticarlo, cioè, per includerlo in un ciclo produttivo di un nuovo regime di sfruttamento.

Quanto seguirà continua essere un fatto risaputo della storia e per convenienza discorsiva potrei omettere di riportarlo, ma gli eventi storici tra passato e presente sono così richiamanti gli uni con gli altri per le loro dinamiche e i loro soggetti, che non posso esimermi dal farlo.

Piombo, zinco, rame, argento, saranno estratti dai loro filamenti per essere imbarcati sulle bilancelle in attesa lungo le spiagge prossime ai siti minerai per essere trasferite sui porti di Carloforte e Cagliari e prendere la via per le centrali siderurgiche di Francia, Italia, Germania e Belgio. 

Numerose, la gran parte, sono le compagnie estrattive straniere titolari di concessioni trentennali.

Tra le grandi società europee che investirono in Sardegna si ricordano la belga Vieille-Montagne, le francesi The Pertusola Lead Mining and Smelting Company Ltd, Société Anonyme Des Mines de Malfidano, Société Civile des Mines d’Ingurtosu et Gennamari, l’ inglese Gonnesa Mining L.T.D. Mentre tra le società a capitali sardi e italiani si ricordano la Società Anonima di Montevecchio, la Società di Monteponi e Montesanto a capitali liguri. 

La famosa indagine parlamentare sulle condizioni dell’industria mineraria in Sardegna condotta da Quintino Sella, evidenziò l’esistenza di 450 tra concessioni minerarie e permessi di ricerca con un ritmo di estrazione attestato tra le 12.000 t e le 80.000 t l’anno per ogni miniera.

L’accordo commerciale tra il Regno di Sardegna e le società minerarie prevedeva un esiguo 5% di tributi sui ricavi diretti delle attività estrattive cui le Società minerarie erano tenute a versare all’erario del Regno per lo sfruttamento intensivo dei giacimenti minerari sardi, ma sufficienti per le casse del Governo centrale per cui la Sardegna era una colonia di cui sfruttarne le risorse per alimentare la macchina produttiva e finanziaria del nord Italia. 

I metalli estratti dalle miniere dell’Isola prendevano così la via delle grandi acciaierie (francesi, belghe, tedesche, italiane) affamate della materia prima che contribuiva all’entrata nella seconda rivoluzione industriale e a far crescere le Capitali europee e i loro Regni di quel progresso che da li a breve gli avrebbe aperto le porte alla Belle Epoque.

Lo scrittore Max Leopold in un suo viaggio in Sardegna riportava così la sua esperienza:

 […]Purtroppo la Sardegna trae solo un esiguo beneficio dai profitti derivanti da queste ricchezze naturali. Le miniere sono quasi completamente in mano a continentali o stranieri. Monteponi è genovese; a Gonnea opera la Mining Company Limited, a Nebida ha sede una società austro-belga, nella miniera della Duchessa presso Domusnovas la belga Vieille Montagne, a Marganai-Reigraxius la Marganai Forest e la Mining Company Limited ecc.

 [WAGNER, Max Leopold, Immagini di Viaggio dalla Sardegna, Nuoro, Edizioni Ilisso, 2001, p. 61,62]

È altrettanto noto come insieme all’atto delle concessioni di sfruttamento del sottosuolo, il governo di Casa Savoia rilasciava alle compagnie minerarie le concessioni di sfruttamento delle risorse boschive sui suoi terreni demaniali. Il legname rappresentava il materiale principale per la costruzione delle infrastrutture delle miniere, per il trasporto dei minerali e la loro lavorazione. Non solo sui terreni di demanio del Regno,  anche le comunità erano obbligate ad offrire legno, boscame da costruzione, carbone e tutti i mezzi di trasporto ritenuti utili per l’impresa mineraria. Non vi era modo di opporsi, perché era statuito che lo Stato aveva diritto di prelievo del legname occorrente per i fabbisogni della Regia Marina, della Regia artiglieria e delle Regie Fonderie.

In appena cinquant’anni, tra il 1860 ed il 1910, un quarto della superficie boschiva della Sardegna sarà rasa al suolo per le industrie minerarie, metallurgiche, ferroviarie delle città industriali del Nord Europa e del Regno d’Italia.

È famoso lo stralcio di articolo che Gramsci scrisse a riguardo sull’Avanti del 1919:

“L’Isola di Sardegna fu letteralmente rasa al suolo come per un’invasione barbarica. Caddero le foreste che ne regolavano il clima e la media delle precipitazioni atmosferiche.  La Sardegna d’oggi, alternanza di lunghe stagioni aride e di rovesci alluvionanti, l’abbiamo ereditata allora””

L’estrazione dalle miniere cesserà dopo oltre un secolo di attività intensiva lasciando sul territorio impianti industriali non più operativi, nessuno sviluppo industriale, scarti di materie prime lavorate con alte percentuali inquinanti, ampie aree desertificate e brulle, un tessuto sociale agropastorale ormai scardinato e compromesso ed una classe operaia disoccupata che darà avvio ai flussi migratori verso quei paesi europei che, invece, con il proprio lavoro di scavi minerari avevano contribuito a edificarne la modernità.

Arriviamo ai giorni nostri.
Questa forma di esproprio violento, con cui il capitale s’impossessa delle risorse comuni e pubbliche e che ha caratterizzato tutto il XIX secolo nella sua fase di industrializzazione, si manifesta oggi con mezzi simili ma con finalità differenti. Se nel lungo corso della rivoluzione industriale, estesa ben oltre il tempo che la storiografia eurocentrica  classica ci insegna se consideriamo la scala planetaria, la finalità del capitale era quella di espropriare la risorsa produttiva dal  lavoro vivo ed assoggettarlo in forza lavoro da cui appunto estrarre e accumulare nuovo capitale, nello sviluppo attuale assistiamo ad un esproprio delle risorse produttive ma con l’ esclusione del lavoro vivo dalle dinamiche di sfruttamento.

Esempi contemporanei di queste nuove forme di enclousure (o di accumulazione del capitale per spoliazione) sono i processi di privatizzazione dell’acqua, l’elettricità, il gas, l’istruzione, la salute, l’edilizia popolare, la previdenza sociale, i trasporti, la logistica.  

Un numero consistente di conflitti sociali esplosi in buona parte del pianeta dalla metà degli anni ’90 ad oggi, sono conflitti che si sono manifestati a difesa dei beni comuni e, per così dire, fuori dalla diretta contraddizione capitale/lavoro. Ciò non deve indurci a ritenere che questi conflitti si manifestano al di fuori delle dinamiche capitalistiche o estranee alle contraddizioni del modo di produrre e riprodurre capitalistico. Al contrario! 

Il movimento del popolo sardo in opposizione al programma di esproprio delle terre degli allevatori e del demanio boschivo pubblico, rappresenta non solo una risposta popolare spontanea ad una violazione dello stato di diritto sulle proprietà, o una battaglia civile in nome di un supposto concetto astratto di “natura”, “paesaggio”, “identità”. 

Il conflitto sociale che si è aperto si oppone a questo processo di esproprio dalle proprie terre produttive e dalla esclusione di una gestione del bene pubblico dell’energia e soprattutto del diritto alla Autonomia sancita dalla Costituzione. È un fronte popolare dai potenziali connotati politici in via di definizione che si oppone  alla finanziarizzazione delle proprie terre, che respinge un piano di recinzione ed esclusione del bene pubblico, che rivendica un’identità culturale, e quindi storica, fondata sul controllo diretto, partecipato e democratico del  proprio territorio. 

Se lo sfruttamento delle risorse minerarie, il taglio boschivo intensivo, i piani industriali per il mezzogiorno, la cementificazione delle coste in seno al turismo di massa, hanno definito per oltre un secolo una fase di espansione del capitale estero, sulla base di politiche coloniali e attraverso l’assoggettamento di un intero popolo  per trarne capitale e forza lavoro secondo un modello egemone di supremazia in una fase di accumulazione produttiva, si potrebbe  ritenere che nella fase di crisi sistemica il capitalismo non necessità più di nessuna forma di consenso ( salariale e culturale) per estendere il suo dominio sulla popolazione, bensì un dominio basato sulla coercizione, sull’esclusione e sul comando. 

Ipotesi, che però trovano riscontro empirico nel rapporto conflittuale Stato/popolazioni: 

in Spagna il BNG (partito indipendentista della Galizia) ha recentemente presentato la sua campagna contro questa processo di espoliazione finanziaria propagandata come conversione energetica, sulle parole d’ordine Nin espolio nin depredación, enerxía eólica sustentábel, xusta e galega (la traduzione letterale del termine galiziano “espolio” è “saccheggio”); in Francia è sorta la federazione “Vent de colère !” che riunisce centinaia di associazioni territoriali che si oppongono alla medesima ventata di speculazioni; in Marocco è stato messo in opera una dei più massicci espropri collettivi di comunità di pastori per la costruzione del più grande impianto solare termodinamico del mondo. Il parco sorge in un’ampia zona del deserto del Sahara, vicino alla città di Ouarzazate. L’area è stata individuata per diverse caratteristiche tecniche tra le quali l’esistenza di un territorio senza altra vocazione economica. 

Falso, perché nel sito scelto per la conversione al capitalismo verde, le comunità di pastori berbere pascolavano il loro bestiame. Attraverso un raggiro di contratti poco chiari e la complicità del re di Marocco Muḥammad al-Sādis, i loro terreni sono stati confiscati. I finanziatori di questo mega impianto capace di produrre fino a 500 MW sono stati la Banca Per lo Sviluppo Tedesca (KfW) con 1.000.000.000 di dollari, la Internation Financial Corporation con 596.000.000 di dollari, la Banca Mondiale con 400.000.000 di dollari di parte statunitense. 

L’accordo commerciale prevede l’esportazione di energia prodotta dall’impianto verso 2 milioni di abitazioni in Europa in pieno regime estrattivo neocoloniale.
[Fonti: ejaatlas.org;  Cadtmworldbank.org]

Le similitudini di questi conflitti e quello Sardo sono presenti nei soggetti, nelle pratiche politiche, negli interessi finanziari, nella retorica del potere, nei programmi latenti e, soprattutto, nel processo di acquisizione di risorse attraverso la pratica della sottrazione coatta (espoliazione) per rimettere nel circuito (speculativo) il capitale finanziario che non trova sbocchi in un mercato ormai asfittico e in crisi. 

I fronti aperti sono numerosi e non si possono più ridurre e sminuire con sprezzo istituzionale a semplice difesa del “proprio orticello”.

I comitati storici che si oppongono agli espropri per i cantieri dell’alta velocità, quelli sorti in opposizione a gli inceneritori, contro l’abbattimento di intere piantagioni di ulivo, contro gli espropri per la costruzione di sistemi radar militari, rigassificatori o gasdotti, il moltiplicarsi di tutti questi conflitti territoriali dimostrano che il governo dei territori è sempre più stabilito su forme di esclusione, di non consenso, autoritarie e attraverso la prassi della militarizzazione.

In antitesi al dominio dell’interesse privato,  della finanziarizzazione delle risorse, delle speculazioni, degli espropri, le proposte che arrivano dai territori in lotta sono quelle di un alternativa al capitale fondata sul “comune”, la partecipazione e l’inclusione. 

In Sardegna l’esito del referendum contro l’accatastamento delle scorie nucleari è stato chiaro e indiscutibile sui numeri, così come lo è stato a suo tempo quello nazionale sull’acqua pubblica, e  questo primo autunno lo è stato la presentazione delle 210.000 firme a favore della legge popolare per il blocco del piano eolico e fotovoltaico industriale e propositivo sulle comunità energetiche: unica soluzione per una reale conversione verde, pacifica, consensuale, inclusiva, democratica e autogestita.


Illustrazione di Marzia Fino, presa da duegradi.eu

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Un commento

  1. … e unu tazu/tallu/tàgiu de ‘disamparados’ politicantes si leant su “ruolu” de canes in chirca e ifatu de meres amparadores e si presentant a faci manna a rapresentare a faci manna sa natzione sarda in nùmene de sa minoràntzia chi los votat in su terrinu ‘fertile’ de s’ignoràntzia coltivada in totu sos “grados” de istrutzione e de su bascaràmine de cambaradas ‘politiche’.

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