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Arte in Sardegna e alcune fàulas: per una riappropriazione del nostro patrimonio artistico-culturale

Quando si parla di patrimonio artistico e culturale in Sardegna, la prima cosa che viene in mente sono senza dubbio le testimonianze archeologiche della civiltà nuragica, in primis i nuraghi, che con la loro massiccia presenza costellano densamente tutto il territorio isolano. I nuraghi sono nel tempo diventati simboli di identità in cui riconoscere la sardità più autentica, più pura, poiché costruiti in un’epoca arcaica che nell’immaginario collettivo si ritiene – erroneamente – esente da interferenze e presenze esterne, caratterizzata dalla grandezza e dalla potenza (talvolta narrate accanto al concetto di fierezza) di questa civiltà.

Non è raro sentire discorsi che affermano che in Sardegna non ci sia nessun’altro tipo di arte; io stessa, durante i miei studi in Beni Culturali, quando decisi di trasferirmi fuori mi sentii chiedere più volte se me ne stessi andando a causa del fatto che in Sardegna non esistesse un consistente patrimonio artistico, come se l’arte, quella vera, quella degna di essere studiata, si trovasse naturalmente altrove. Queste credenze, molto diffuse, sono frutto dello screditamento della cultura e del patrimonio sardo e del noto tentativo, da parte del centralismo statale, di cancellarli o inglobarli all’interno del patrimonio nazionale. Da queste premesse nasce la mia riflessione sull’effettiva scarsa considerazione rivolta al patrimonio artistico sardo, anche solo quando si pensa che sia possibile ridurre la sua essenza esclusivamente alle testimonianze nuragiche.

Vi è poi un’altra questione. Quando si parla di arte in Sardegna si dà troppo spesso per assodato che essa sia stata, già a partire dalle sue prime forme e poi durante i secoli, fino alle esperienze più contemporanee, una diretta emanazione dei modi e della storia stessa dell’arte italiana, come una sua ramificazione, ignorando in questo modo la specificità delle vicende storiche sarde che hanno invece favorito la nascita e la diffusione di tendenze artistiche autoctone, non esenti, chiaramente, da influenze esterne, in particolare da parte dell’arte della penisola.  Quel che è certo è che considerare l’arte sarda come un insieme di apporti di derivazione italiana declinatisi secondo modi e tendenze “regionali” è un’interpretazione ancora molto diffusa e fa parte delle conseguenze di tutta quella serie di operazioni di appropriazione culturale volte alla costruzione della coscienza nazionale italiana.

Un esempio è il riferimento al romanico sardo, che persino sui manuali di storia dell’arte viene incluso all’interno del capitolo sul romanico pisano poiché ritenuto, in maniera semplicistica e superficiale, una sua diretta derivazione, in ragione dei rapporti commerciali tra Sardegna e Pisa e della supremazia che quest’ultima finì per imporre sull’isola a partire dall’XI secolo. È vero che numerose basiliche romaniche sarde (Santissima Trinità di Saccargia a Codrongianos, San Pietro di Sorres a Borutta, per citare le più conosciute) presentano elementi di derivazione toscana, per quanto riguarda impianti, impiego di materiali (uno tra tutti il marmo bicromato, nero e bianco, dei paramenti murari), ma anche per la presenza documentata di intere maestranze pisane che lavorarono alla costruzione di questi edifici. Ciò però non giustifica l’assimilazione al romanico toscano di quello sardo; come scrisse Roberto Coroneo infatti, “gli edifici più rappresentativi e le forti personalità di maestri architetti illustrano l’organizzazione di scuole locali che operano una fusione di modi eterogenei, spesso caratterizzati da una precisa visione, propria del gusto isolano.” Un’architettura frutto dell’incontro di diverse forme e modi di costruzione, molto spesso importati, ma che presenta come risultato finale una sua personalissima e riconoscibile identità. 

Un altro esempio di come spesso l’arte sarda venga inglobata in categorie culturali che caratterizzano l’arte italiana è l’estensione del concetto di Rinascimento alla produzione artistica isolana della stessa epoca. Come noto, i secoli XV e XVI secolo segnarono l’apice dello splendore delle arti e della cultura in quelle che sono considerate le culle dell’umanesimo italiano come Firenze, Roma, Bologna; quando si fa riferimento alla produzione artistica sarda di questo periodo si adotta spesso l’espressione di “Rinascimento sardo”, trasponendo delle esperienze ben precise, nate e sviluppatesi in contesti e territori lontani e molto diversi dalla Sardegna, all’ambiente artistico e culturale isolano, operazione che, se si analizza attentamente la realtà sarda di quel periodo, risulta alquanto grossolana e priva di senso. Senza negare gli apporti culturali esterni, provenienti dalla penisola e non solo, che furono sempre costanti, è fondamentale però ricordare che nel Quattrocento la Sardegna era già governata dagli aragonesi, che vi importarono i propri modelli culturali e artistici, differenti da quelli rinascimentali fiorentini e legati ad altre tradizioni, che si fusero così con elementi preesistenti. A tal proposito vale la pena ricordare una stagione molto felice per quanto riguarda la pittura nell’isola, una scuola sarda nata e sviluppatasi tra Quattrocento e Cinquecento.

Se si passeggia all’interno della Cittadella dei Musei a Cagliari, e si arriva sino al punto più alto del complesso fortificato, si trova la Pinacoteca, luogo piuttosto poco conosciuto che custodisce, tra gli altri, degli oggetti d’arte preziosissimi che hanno caratterizzato l’arte sarda tra XV e XVII secolo, i retabli, grandi pale d’altare nate dall’importazione di modelli iconografici spagnoli che iniziarono a ornare le chiese sarde già dall’inizio del XV secolo grazie a maestri iberici come Joan Mates, Juan Figuera, Rafael Tomas e Juan Barcelo, documentati in Sardegna con le loro maestranze da atti notarili che regolavano la compravendita dei loro dipinti. Le diverse tipologie di retabli che arrivarono in Sardegna soppiantarono i più diffusi modelli pittorici di derivazione toscana – pisana in particolare – erano accomunate tutte dal fondo oro e dallo sviluppo architettonico bidimensionale tipico del polittico ligneo che poggia su una base (predella) ed erano divise in più parti (scomparti) che narravano scene della vita di Cristo o dei santi, ognuna delle quali aveva un ruolo iconografico ben preciso; le scene costituivano infatti dei registri orizzontali o verticali, tutte le tavole erano in relazione tra di loro e lo scomparto centrale raffigurava quai sempre la Madonna in trono col Bambino (o talvolta il santo titolare della chiesa o della cappella per cui il retablo era stato commissionato). 

Alla fine del Quattrocento, accanto al lavoro dei pittori catalani che operavano in Sardegna, iniziano ad essere documentate nell’isola delle nuove esperienze di botteghe pittoriche locali che divennero delle vere e proprie scuole di pittura. Una delle più significative fu la cosiddetta Scuola di Stampace, bottega di pittura nata nell’omonimo quartiere di Cagliari all’inizio del XVI secolo grazie all’attività artistica di alcuni membri della famiglia Cavaro. Fu Lorenzo – Lores Cavaro de stampas, così viene citato nella firma della sua opera più antica, un’ancona proveniente dalla parrocchiale di Gonnostramatza, risalente al 1501 -, capostipite della famiglia, a fondare la bottega nel quartiere occidentale della città, dove avevano sede tutte le attività artigianali. Pietro, fratello o figlio di Lorenzo, fu però il vero iniziatore della scuola. Si formò a Barcellona prima del 1508, anno in cui risulta iscritto al gremio dei pittori della città; dal 1515 è attestato nuovamente a Cagliari dopo un soggiorno napoletano durante il quale nacque il figlio Michele, anche lui futuro pittore. Prima opera dopo il suo ritorno in Sardegna è il Retablo di Villamar, firmato e datato al 1518 e ancora oggi conservato nella chiesa di San Giovanni Battista del paese; strutturato secondo lo schema tipico del polittico catalano, con al centro la statua della Madonna d’Itria, esso è sicuramente la sua opera più complessa e meglio riuscita. 

Figlio di Pietro e della napoletana Isabella Godiel, su Michele Cavaro, erede e continuatore della scuola stampacina, si dispone di un’amplissima documentazione. In particolare, tra le notizie che testimoniano la sua attività pittorica, due fanno riferimento ad opere ancora conservate, la pala della Madonna della Neve, oggi nella Pinacoteca cagliaritana, realizzata per la chiesa di San Francesco di Stampace, e quella per la parrocchiale di Maracalagonis, ancora in loco. I documenti attestano un’intensissima attività e ci dicono tra le altre cose che la sua quotazione era la più alta tra i pittori attivi a Cagliari, che godeva di una notevole solidità economica e che aveva raggiunto un’elevata posizione sociale in quanto ricoprì delle cariche pubbliche quali subvicario della città, consigliere e sindaco di Stampace nel 1580, quattro anni prima della sua morte, avvenuta a Cagliari. 

Un altro artista attivo nel contesto della scuola di Stampace è Antioco Mainas, pittore e scultore, che i documenti ci dicono vicino a Michele Cavaro e forse allievo di Pietro, attivo dal 1537 al 1570. Purtroppo molto poco si sa sulle altre botteghe attive in quegli anni nel quartiere di Stampace; una di queste apparteneva ad un certo Giacomo Murgia, che alla sua morte, nel 1548, la cedette al maestro Antonio Giovanni Raxis, già titolare di un’altra bottega a Stampace. La bottega dei Cavaro divenne una fucina per numerosi altri artisti, sardi e non, grazie anche ad un’altissima domanda di manufatti da parte della clientela locale. 

Dalla Cagliari del ‘500 a quella degli anni Sessanta del secolo scorso; un’altra esperienza importantissima e rivoluzionaria per la storia dell’arte sarda fu la nascita di una serie di movimenti artistici che furono espressione diretta di nuove poetiche astratte e concettuali: Studio 58, nato nel 1958, può essere considerato il primo gruppo di avanguardia in Sardegna. Esso raggruppava artisti quali Tonino Casula, Gaetano Brundu, Rosanna Rossi, Primo Pantoli e Milena Mibelli, portatori di nuove tendenze in contrasto con la tradizione precedente, caratterizzata da un forte realismo e dall’onnipresente elemento folklorico, la cui prima mostra fu organizzata nei locali messi a disposizione dall’Ottico Franz, in via XX Settembre a Cagliari.

Dopo il suo scioglimento il movimento fu assorbito in parte nel Gruppo di Iniziativa, promotore di un impegno democratico e autonomistico della cultura in Sardegna e di una pittura contemporanea caratterizzata da elementi astratti, semplici e geometrici. Nel 1966 nacque invece il Gruppo Transanzionale, fondato da Ermanno Leinardi, il cui manifesto parla di opere transazionali come opere in divenire. Questi movimenti rappresentarono, oltre che una vera e propria rivoluziona artistica in Sardegna, anche dei luoghi di incontro e discussione e di confronto, volti alla costruzione di una nuova identità artistica, culturale e politica. 

L’obiettivo di questo breve e sommario excursus, che non ha nessuna pretesa di essere esaustivo, è quello di richiamare l’attenzione su alcune esperienze della storia dell’arte sarda, conosciute per lo più dagli addetti ai lavori quali storici dell’arte e ricercatori, di sfatare il falso mito secondo cui in Sardegna non sia possibile fare arte e soprattutto di valutare in maniera critica l’inserimento del nostro patrimonio nella più ampia storia dell’arte italiana a scapito del riconoscimento del suo valore identitario e costitutivo per la storia dell’arte in Sardegna. 

Per altre fàulas su arte, cultura, ambiente, turismo, speculazione energetica, Assemblea Natzionale Sarda aspetta tutti ad Oristano sabato 5 e domenica 6 ottobre per la terza edizione di Fàulas, il festival che ribalta i luoghi comuni sulla Sardegna, in cui saranno proposti numerosi eventi, tra cui talk con esperti, tavole rotonde, proiezioni e tanto altro.
Qui il programma, non mancate!


Foto di copertina: Giulia Olianas, Retablo di S.Eligio in Pinacoteca a Cagliari

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