Il PCI in Sardegna e il PCF in Corsica. Storia di incontri mancati.
Lorenzo Di Stefano è uno storico molisano. Nel 2022, ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Storia Contemporanea presso l’Università di Corsica, con la tesi da cui ha prodotto il suo libro recentemente uscito: “Il PCI in Sardegna, il PCF in Corsica e l’identità insulare (1920-1991)” (Unicopli 2023, pp.229).
Si tratta di un lavoro rigoroso per tipologia di fonti utilizzate: risoluzioni di congressi, conferenze e verbali interni dei due partiti; corrispondenza tra le federazioni isolane e i partiti centrali; pubblicistica di partito; rapporti di studi e programmi elettorali; analisi della stampa. Inserito negli island studies, il libro si distingue da opere precedenti sulla dimensione regionale, federale e locale dei due partiti in quanto la storiografia italiana ha prediletto un’analisi culturale-politica mentre quella francese si è soffermata sulla storia sociale. Anche se dalla metà degli anni’70 – contemporaneamente alla proposta dell’Eurocomunismo – sono più numerosi gli studi comparati sui due partiti sino agli anni 2000, rimangono poco numerosi quelli sulle loro sezioni sarda e corsa.
Il libro si divide in sei capitoli articolati in tre parti cronologiche: 1920-43; 1944-62; 1963-91.
I capitoli di ricostruzione del contesto organizzativo ed elettorale delle due formazioni si alternano con altrettanti capitoli incentrati sul rapporto tra i due partiti e le rispettive identità insulari, per evidenziare gli aspetti complessi e originali delle due formazioni nel loro contesto particolare. A delimitare le tre fasi temporali sono la Resistenza (1943) e i piani di sviluppo regionale che cambieranno la società e l’economia delle due isole: lo Schema di Sviluppo per la Corsica (1958) e il primo Piano di Rinascita (1962).
L’autore si richiama alla lezione gramsciana, secondo cui lo studio di un partito deve essere contestualizzato nell’insieme sociale e statale cui è inserito. In questo modo, la storia di un partito non è altro che la storia di un Paese in un suo aspetto caratteristico. Guardando alla Sardegna e alla Corsica, le vicende dei partiti comunisti statali in queste isole non sono, dunque, che un aspetto della storia delle questioni nazionali insulari in rapporto al loro Stato dominante. La storia dei due partiti comunisti nelle due isole, per questo, si incrocia con le traiettorie seguite dai due nazionalismi periferici, quindi con due questioni: l’incontro mancato fra il socialismo e il nazionalismo di liberazione nelle due isole; le ragioni del successo del nazionalismo in Corsica e del suo relativo fallimento in Sardegna.
Di seguito, senza poter offrire una sintesi esaustiva e dettagliata del libro di Di Stefano, cercheremo di soffermarci su alcuni passaggi significativi nel senso di cui sopra per poi concludere con una riflessione generale sulle implicazioni della ricerca per quanto riguarda il movimento nazionale sardo.
1920-1943.
Negli anni ’20, in entrambe le isole, non vi era la base socioeconomica ritenuta generalmente favorevole allo sviluppo di un partito comunista: dominate dal settore agropastorale, la presenza operaia era scarsa e spazialmente circoscritta. Sul piano politico, Sardegna e Corsica erano gravate da un sistema notabiliare e clientelare che, nella prima, era stato scosso dall’ascesa del movimento dei combattenti. In questo contesto, i partiti comunisti erano marginali; inoltre, pochi anni dopo la sua costituzione il PcdI verrà sciolto dal fascismo e condannato all’azione clandestina.
Prima che il fascismo si trasformasse in dittatura, la forza relativa del Psd’Az impose ai comunisti di rapportarsi alla questione sarda, entro la svolta strategica rivoluzionaria di Gramsci sulla necessità di una politica per il Mezzogiorno verso un’alleanza operaia-contadina a guida comunista.
Di Stefano illustra il tentativo, tra il 1925 e il 1926, di stabilire un dialogo con Lussu al fine di creare una sinistra sardista a supporto della tattica del consiglio internazionale contadino, per inserire l’autonomismo entro un disegno strategico per la rivoluzione socialista in Italia. Perno di questa operazione fu l’appello di Grieco per l’adesione del Psd’Az all’Internazionale contadina, che prevedeva: la nazionalizzazione delle miniere; l’esproprio della grande proprietà terriera e la sua redistribuzione ai contadini; l’abolizione del protezionismo; il controllo del prezzo del prodotto caseario da parte delle cooperative di pastori e contadini; l’esproprio dell’industria sugheriera e la sua autogestione; nazionalizzazione e autogestione delle ferrovie; abolizione del fitto per i piccoli affittuari; annullamento dei debiti e delle ipoteche per i contadini poveri; insediamento di un consiglio di operai, contadini, pastori e pescatori a capo di una Repubblica sarda soviettista. I comunisti, pur riconoscendo il ruolo antifascista del sardismo (alle legislative del 1924 il Psd’Az fu il secondo partito più votato, dietro il listone nazionale fascista) attaccano “l’ideologia conservatrice dei capi opportunisti”. Secondo Grieco, il sardismo originario aveva delle similitudini con il fascismo del ‘19, perciò antirivoluzionario e antioperaio. D’altra parte, nel movimento sardista era presente una componente anticomunista: ad esempio, il suo dirigente Giovanni Battista Puggioni in un articolo su La Voce si era dichiarato in favore dell’indipendenza dell’isola in reazione a una possibile rivoluzione comunista in Italia. Nel noto carteggio con Gramsci, Lussu affermando il suo supporto a un’alleanza sardista con repubblicani e socialisti ne escluse una con i comunisti: incompresa, avrebbe potuto frantumare il partito. Le contraddizioni sociali e ideologiche del Psd’Az saranno tali che una parte dei sardisti confluì nel Partito Nazionale Fascista.
Tutto questo dibattito ebbe il suo culmine nel Congresso di Colonia (1931), dedicato alla conquista della maggioranza delle masse: in esso si elaborò una proposta di autogoverno autonomistico per le popolazioni del Mezzogiorno e delle isole entro una Federazione delle repubbliche socialiste e soviettiste d’Italia, prevedendo il diritto di autodecisione per le minoranze tedesche, slovene, croate e l’indipendenza delle colonie africane. La linea dei comunisti italiani era diritto all’autodecisione fino alla separazione per tutte le nazionalità (croati, tedeschi, albanesi…); autonomia e federalismo come tappe progressive verso l’effettiva unione di tutte le regioni in una sola unità nazionale e poi nell’unità universale.
Al contrario, il PCF non produsse nulla di simile in riferimento alle questioni nazionali interne. Tuttavia, in nome del suo antimperialismo, vi fu un’apertura sulla Corsica: durante il congresso del gennaio 1931 l’isola era stata definita “nazionalità oppressa”. Il movimento corsista era assai poco consistente e privo di organizzazione di massa: il Partitu Corsu d’Azione/Partitu Corsu Autonomista era un piccolo partito privo di peso elettorale, astensionista e capeggiato da un gruppo di intellettuali fondatore della rivista culturale A Muvra, i cui riferimenti sociali erano la piccola borghesia rurale, letterati, commercianti, artigiani. Negli anni’30 tale rivista, che in precedenza era riuscita ad attirare degli esponenti comunisti, si irrigidì su posizioni di estrema destra e irredentiste italiane, giungendo addirittura a sostenere la Guerra d’Etiopia del 1935-36 e, nel ‘38, l’annessione dei Sudeti da parte della Germania nazista.
Nel 1935 irruppe la linea del Comintern, imponente ai partiti comunisti di soffermarsi sulla propria dimensione Stato-nazionale, al fine di contendere la “nazione” ai fascisti. Ciò segnò inevitabilmente una battuta d’arresto per il dibattito sulle questioni nazionali interne allo Stato italiano e francese. Nel 1939, nella Conferenza còrsa del PCF, il documento antifascista del segretario Raoul Benigni si richiama all’identità storica del popolo còrso e alla figura del rivoluzionario Pasquale Paoli – protagonista della Repubblica isolana (1756-1768) in guerra contro genovesi e francesi – come colui che aveva saldato la Corsica alle idee illuministe della Rivoluzione contro la vecchia Francia dispotica. Perciò, in questo senso, la Corsica sarebbe diventata francese a pieno titolo solo con il 1789. Durante la Resistenza antifascista e l’opposizione al regime di Vichy, i comunisti riuscirono a darsi un’efficace organizzazione capace di sostenere la Resistenza armata contro l’occupazione fascista e nazista tra ‘42 e ‘43. La Resistenza ha contribuito alla costruzione dell’identità corsa contemporanea, con l’ampio utilizzo di elementi identitari definenti un patriottismo regionale e in questo distinguendosi dal resto della Resistenza francese. Tuttavia, per i vertici del partito era una mera strategia propagandistica, giacché la Corsica era considerata parte della indissolubile Repubblica francese. Tuttavia, è emblematico il caso del partigiano comunista Jean Nicoli, il quale, condannato a morte dai fascisti italiani, nella sua lettera di commiato dichiarò la sua volontà di venire sepolto con la bandiera rossa e la Testa Mora.
Il collaborazionismo di una parte rilevante di corsisti con il fascismo italiano, nei decenni successivi la Seconda Guerra, ha pesato come un macigno sullo sviluppo di un nazionalismo còrso. Tuttavia, questo carattere patriottico della Resistenza antifascista còrsa ha consentito ai nazionalisti isolani di porla nel proprio patrimonio memoriale politico, inserendola – vedi libro di Jean-Guy Talamoni, Avanzà ! La Corse que nous voulons, Flammarion, Paris, 2016 – in una continuità storica con altri eventi, entro una “tradizionale” tendenza dei còrsi a prendere le armi contro un potere ingiusto.
Al contrario, una Resistenza antifascista in Sardegna, di fatto – al netto di alcuni episodi coinvolgenti solo militari – non c’è stata per ragioni contingenti: i tedeschi lasciarono l’isola poco dopo l’armistizio del 8 settembre 1943. Pur essendo stati numerosi gli antifascisti sardi, e comunisti in particolare, impegnati nell’esilio e nella Resistenza in Italia, Francia, nei Balcani, per non parlare del sostegno alla causa repubblicana nella Guerra civile spagnola, la mancanza di una Resistenza nel territorio sardo è stata foriera di conseguenze nefaste sul piano ideologico e politico, contribuendo alla definizione di un’identità civica italiana che, per una parte consistente dei sardi di Sinistra, identifica l’Italia con i valori antifascisti della Costituzione.
Tra la fine del ‘43 e la prima metà del ‘44 si svolse lo scontro tra il PCI e il Partito Comunista di Sardegna. Il secondo, richiamandosi a un’ideale Internazionale ormai sciolta, rimproverava al primo la sua chiusura nei confronti della questione dell’autonomia e l’incapacità di estendersi nelle aree rurali; ai sardisti, invece, imputava la loro incapacità di inserire i lavoratori sardi nella lotta per l’autonomia. Infine, il PCS, escluso uno dei suoi due fondatori, Giovanni Antioco Mura, erede del sindacalismo rivoluzionario attivo dentro il PSI nei primi anni del Novecento, decise di entrare nel PCI grazie all’attività di Velio Spano al fine di comporre la frattura. Per una visione più esaustiva della sua vicenda, rimando, oltre al libro di Di Stefano anche al capitolo scritto da me e lui per il volume “Altri comunismi italiani” (Accademia University Press 2024), curato da Marion Labey e Gabriele Mastrolillo.
1944-1962.
Come scritto sopra, il contesto del secondo dopoguerra deve tenere conto dello scioglimento dell’Internazionale comunista nel 1943. Questo fatto rese i partiti più focalizzati sulla dimensione stato-nazionale. Rispetto al PCI, il PCF ha seguito più rigidamente una politica giacobina di identificazione tra centralismo statale e uguaglianza, eleggendo lo Stato a garante dell’interesse generale. Secondo Thorez, il Partito Comunista era la sola organizzazione veramente francese, attraverso l’identificazione negli eventi rivoluzionari del 1789 e del 1871. L’intervento di Togliatti, nel congresso sardo del 1946, fu decisivo nell’adesione dei comunisti sardi alla scelta autonomistica, entro la profonda democratizzazione promossa dal Partito in Italia. Inoltre, vi era anche la necessità di condurre una politica regionale sarda per strappare ai sardisti la bandiera delle rivendicazioni isolane e conquistare le masse popolari.
Negli anni ’40, prima dell’avvento dell’autonomia speciale, la Sardegna è posta sotto il Commissariato del Gen. Pinna (1944-1949). Il PCI inizialmente risente ancora della base socioeconomica sfavorevole: al ‘44, oltre la metà dei suoi 19000 iscritti sono della federazione provinciale di Cagliari, focalizzati nel bacino minerario. Tuttavia, a differenza della fase pre-fascista, il sardismo non sembra più in grado di mantenersi un punto di riferimento per un parte rilevante della popolazione nelle campagne, sia per quella che Emilio Lussu – motivando la sua scissione da Sinistra – percepì come una virata del partito su posizioni reazionarie, sia per i cambiamenti che investiranno l’area con la riforma agraria, la creazione di vari enti pubblici e il sorgere delle lotte per l’occupazione delle terre (1944-1950). Grazie alla sua partecipazione in esse, il PCI diventò il partito di riferimento per le rivendicazioni nelle campagne. Colmando la fondamentale lacuna dei partiti della Sinistra italiana in Sardegna nel periodo fra le due guerre, le lotte formarono centinaia di militanti comunisti e socialisti, contribuendo a creare una solida organizzazione territoriale a supporto dei due partiti. D’altra parte, la Democrazia Cristiana attraverso il suo potere regionale costruì una rete clientelare di consenso. La nuova composizione sociopolitica portò il sardismo a declinare nel consenso elettorale sino agli anni’70.
Netta era la chiusura del PCI nei confronti del Psd’Az, considerato come partito reazionario espressione dei ceti agrari isolani. Inoltre, i comunisti intendevano porsi in competizione con il Partito Sardo su questione sarda e sardismo. Di Stefano riporta che la linea autonomistica del PCI per la Sardegna venne decisa e avviata a livello centrale fin dal 1945: dal ‘47, con l’estromissione dal governo, la linea filoregionalista del PCI si fece più forte al fine di equilibrare a livello regionale il potere democristiano sullo Stato. Il secondo Congresso del PCI aveva dichiarato la totale compatibilità tra la politica autonomistica e quella di unità nazionale, con necessità di rifarsi al concetto di popolo sardo in contrapposizione ai grandi agrari, agli speculatori, a tutti coloro che hanno goduto dei privilegi del centralismo e del sottosviluppo sardo. Secondo il segretario sardo Velio Spano occorreva strappare l’autonomia dalle mani della borghesia, in nome dell’autogoverno delle masse popolari: dare le miniere ai minatori, l’agricoltura e la pastorizia a contadini e pastori, le peschiere ai pescatori. Nel 1950, nel Congresso del Popolo Sardo per la Rinascita, il PCI ha espresso la sua idea di programmazione democratica contro un’impostazione centralistica.
In Corsica si seguì una traiettoria differente: tra il 1939 e il 1947, il PCF cresce – da 450 iscritti a 9830 consolidamento nelle realtà urbane e nei luoghi principali in cui si svolse la Resistenza, quali la Casinca e il Sartenese. L’isola era stata l’unica regione in cui il Front National (egemonizzato dai comunisti) aveva imposto la sua egemonia sugli altri movimenti clandestini, rappresentando un simbolo di cambiamento in una vita politica locale dominata dal clanismo. Tuttavia, la crescita del PCF si esaurì nel ‘47. Secondo Di Stefano, ciò avvenne in primo luogo a causa dell’uscita dei comunisti dal governo in concomitanza con l’evoluzione della guerra fredda. Inoltre, un’altra causa rilevante sarebbe stato il suo anticolonialismo, dati i tanti còrsi impiegati nelle amministrazioni coloniali e in Algeria. A differenza di quanto avvenuto in Sardegna, anche per via della quasi scomparsa del corsismo e per l’ideologia centralista, il PCF non seppe connettersi alla situazione locale, dando maggiore rilevanza a temi internazionali e venendo dunque percepito come distante dagli isolani. Con l’alleanza tra comunisti e i radicali di Zuccarelli per l’amministrazione della città di Bastia, negli anni’ 60, il PCF perse anche la possibilità di presentarsi come un’alternativa al clanismo isolano. Il ruolo importante del PCF nel movimento del 29 novembre 1959, contro la soppressione della linea ferroviaria Bastia-Ajaccio e contro il centro di sperimentazione nucleare nella cava dell’Argentella, fu l’ultimo in cui i comunisti esercitarono l’egemonia su una rivendicazione popolare.
Mentre la segreteria di Renzo Laconi seppe utilizzare i temi dell’autonomia regionale e della Rinascita, la segreteria di Albert Stefanini (1948-1982) è stata una mera esecutrice della linea centrale. Inoltre, dal 1956 i due partiti anche a livello centrale seguirono vie differenti: il PCI adottò un modello ibrido, rivendicando una via “italiana” più autonoma dall’URSS e aprendosi ad altre classi sociali, agli intellettuali e al dialogo con altre forze politiche; al contrario, il PCF tese a conservare la propria dirigenza operaia.
I progetti per lo sviluppo economico delle due isole segnano il secondo giro di boa di questa storia. Nel 1957 venne approvato il Programma d’Azione Regionale per la Corsica. Nel 1962 fu approvato il primo Piano di Rinascita.
1962-1991.
Senza entrare nel dettaglio dei due progetti di sviluppo, si può affermare che la differenza fra i due sia nell’essersi basato su agricoltura intensiva e turismo di massa nell’Isola di Bellezza e sull’industrializzazione petrolchimica in Sardegna. Mentre i comunisti corsi finirono per accordarsi con un pezzo di clanismo politico, il nazionalismo isolano risorse dai movimenti in lotta contro le conseguenze del PAR. Negli anni ’70 nacquero i movimenti neosardisti, a Sinistra del Psd’Az e mai capaci di contendere alla Sinistra statale una fetta considerevole di consenso.
Nel 1969 con la lotta di Orgosolo contro la creazione di un poligono militare a Pratobello, emerse con chiara evidenza la contraddizione tra la scelta stato-nazionale del PCI e il discorso autonomista del PCI sardo. Franca Menneas (Sa lota ‘e Pratobello, Domus de Janas 2019) così ha riassunto gli interventi dell’ex sindaco democristiano Licheri, di un esponente del PSIUP e di Pirastu del PCI: “…tutti sottolineano che lo Stato si è cacciato in un vicolo cieco e che non può uscirne sconfitto, che l’esercito italiano è uno dei pilastri delle istituzioni repubblicane e non può farsi deridere da poche migliaia di pastori e braccianti. Bisogna patteggiare un accordo che non scontenti nessuno (…) bisogna permettere che si facciano le esercitazioni, in una zona ridotta e per minore tempo magari, ma lo Stato deve in qualche modo dimostrare di essere in grado di attuare le decisioni prese. I comunisti si dimostrano ancora più zelanti dei democristiani nell’insistere sul fatto che il loro partito rispetta la legalità e le istituzioni statali. Si chiede l’apertura di una trattativa e la formazione di una delegazione da mandare a Roma a parlare con il ministro della Difesa (…) Poco dopo il PCI, dopo aver espulso due tra i più attivi del circolo giovanile iscritti anche al partito, pose il veto alla candidatura dei suoi ex dirigenti di sezione per le successive elezioni comunali di un anno dopo”.
I Fatti d’Aleria del 1975 segnarono l’inizio del nazionalismo corso moderno, con l’occupazione, da parte di militanti dell’Action Régionaliste Corse, della proprietà vitivinicola di un colono – uno dei tanti il cui arrivo fu favorito dallo Stato francese, specie a seguito della decolonizzazione dell’Algeria – colpevole di far concorrenza sleale ai produttori corsi. Il PCF condannò la repressione che seguì l’atto e dichiarò legittima la richiesta della creazione di un’assemblea e un di un esecutivo regionali. Tuttavia, espresse un netto rifiuto del nazionalismo corso, rivendicando l’appartenenza alla Francia attraverso il richiamo ai morti della Resistenza. Decisa condanna anche dello slogan “i francesi fora” in nome della lotta contro i grandi capitalisti traditori della patria. La nascita, l’anno dopo, del Fronte di Liberazione Nazionale Corso irrigidì ulteriormente il PCF nei confronti della questione nazionale, pur continuando nell’utilizzo di simboli identitari: il segretario George Marchais affermò che compito del partito avrebbe dovuto essere quello di fronteggiare tanto la Destra quanto gli indipendentisti. Dal canto suo il FLNC, in un comunicato del ‘81, denunciò l’ultranazionalismo e il razzismo antimigranti di Marchais.
Gli anni’70 furono, complessivamente, un periodo di crescita degli iscritti per entrambi i partiti comunisti, ma in particolare del PCI in corrispondenza della segreteria Berlinguer (da 27161 nel ‘70 a 39714 nel 1977). Al contrario, gli anni’80 videro entrambi in crisi di iscritti: quella del PCI sardo coincise con l’ascesa elettorale del Psd’Az, quella del PCF con l’ascesa dei socialisti di Mitterrand, che rese possibile la creazione amministrativa delle regioni in Francia.
Tra la fine degli anni’70 e gli anni’80 il tema delle lingue minoritarie fu al centro del dibattito pubblico, entro una fase di crescita della consapevolezza politico-culturale nelle due isole che – in Sardegna – sfocerà nel successo elettorale del Psd’Az che, nel 1984, formerà una Giunta regionale in alleanza proprio con il PCI. In entrambe le isole la posizione sulla lingua minoritaria si è evoluta al fine di arginare i movimenti regionalisti. Negli anni’70 i comunisti manifestarono aperta ostilità per la lingua sarda, laddove in precedenza alcuni suoi esponenti si erano espressi in favore della sua valorizzazione. Per intellettuali come Girolamo Sotgiu l’ufficialità del sardo era una proposta sconcertante e un segnale di ristrettezza culturale. La Federazione nuorese del PCI giunse a invitare i propri tesserati al boicottaggio della petizione per il bilinguismo in nome della difesa dell’unità della Repubblica. La commissione scuola e cultura del PCI si mostrò ugualmente contraria alla proposta. Nel 1981 il PCI votò in favore della proposta di legge regionale sul bilinguismo, che poi sarà respinta tre anni dopo dalla commissione parlamentare agli affari costituzionali. Infine, nel 1989, al termine della legislatura della Giunta Melis, il PCI (malgrado eccezioni quali quella di Francesco Cocco) contribuì alla mancata approvazione del testo unico della lingua sarda in Consiglio Regionale. Su questo tema rimando al libro di Paolo Pillonca, pubblicato dalla Fondazione Sardinia.
La posizione del PCF – in sintesi – era per il bilinguismo e per la persuasione, contro gli opposti monolinguismi e in nome di un insegnamento complementare del còrso per l’arricchimento culturale del patrimonio francese.
Conclusioni.
Un aspetto emerso da tutto il lavoro di Di Stefano è stata l’assenza di relazioni istituzionali fra i comunisti isolani per la quasi totalità della loro storia. Essa si spiega entro la lunga durata di un processo generale di costruito a partire del XVIII secolo e consolidatosi dalla metà del XIX secolo come “nazionalizzazione” francese e italiana. Corsica e Sardegna, per quanto simili, sono state tenute distanti politicamente dalla loro appartenenza statale, malgrado la vicinanza geografica. Due parti di una grande questione meridionale europea, i cui movimenti emancipativi dovrebbero ambire a più stretti rapporti.
Un altro aspetto che emerge è che la fine dell’Internazionale socialista, come la scelta stato-nazionale dei partiti comunisti non erano delle scelte naturali in nome della rivoluzione socialista ma maturarono in circostanze storiche precise. Al fine di rispettarle, nelle due isole, i comunisti statali hanno aderito a una propria forma di nazionalismo francese e italiano, rifiutando le rivendicazioni nazionali periferiche senza riconoscere il proprio nazionalismo. Inoltre, sono talvolta entrati in contraddizione con la difesa degli interessi delle proprie comunità.
Oggi i lavoratori delle nazionalità subalterne dovrebbero lottare, nel comune interesse, con tutti i lavoratori europei, per un cambiamento dell’attuale assetto dell’Unione Europea in favore di un’Europa federale e socialista basata sul diritto di autodeterminazione dei popoli e sulla garanzia europea dei diritti sociali fondamentali. Questo rende necessaria una coniugazione tra la lotta per l’emancipazione nazionale e la lotta per l’emancipazione sociale senza mai ammettere come necessarie delle relazioni asimmetriche fra due nazioni diverse. Il libro qui recensito è uno strumento utile anche per riflettere sulla divergenza tra Sinistra statale e questione nazionale interna nella storia e sul come superarla nella realtà del XXI secolo.
In futuro sarebbe interessante ampliare il lavoro per ulteriori comparazioni, ad esempio, con le realtà dello Stato spagnolo più simili al contesto delle due isole analizzate, quali la Galizia e l’Andalusia, oltre alle Canarie. Tutte realtà dove i nazionalismi periferici e i Partiti comunisti statali hanno dovuto contendersi lo spazio con diverse fortune.