L’impronta sabauda sui nomi delle vie, delle strade e delle piazze di Cagliari
Gli indirizzi hanno una funzione importante nella nostra quotidianità: ci servono per orientarci nei luoghi che attraversiamo. Sono strumenti funzionali e amministrativi, ma in realtà il tema è più complesso di quanto sembri: coinvolge aspetti di storia sociale, antropologia e urbanistica e la riflessione a riguardo solleva temi come genere, origini, politica, questione razziale, classe e status sociale.
Si può dire che rappresentano la nostra eredità culturale; manifestano quali parti della storia guidano il presente, ma soprattutto raccontano di come il potere si sia evoluto nel corso del tempo. Quale potere? Quello di decidere chi nominare e chi no, di scegliere ciò che merita di essere ricordato e cosa tralasciare.
La parola odonomastica viene dal greco: è l’unione tra hodós che vuol dire strada, e onomastikḗ (tékhnē), l’arte del nominare. Leggere lo spazio urbano a partire dai nomi delle vie, delle strade e delle piazze è interessante perché fornisce strumenti in più per acquisire consapevolezza di sé e della società in cui si vive.
Se, ad esempio, le strade intorno a noi commemorano carnefici e tiranni? Se sono dedicate quasi solo a uomini? Abbiamo la responsabilità civile di modificarli oppure li assumiamo come un precipitato storico immutabile? Le modifiche degli odonimi sono il segnale più evidente dell’avvicendarsi di gruppi di potere, dei cambiamenti istituzionali oppure dello sviluppo di una nuova sensibilità nella società.
Per il suo carattere pervasivo, l’odonomastica costituisce, anche per le persone che non ne conoscono il loro significato storico, uno dei tasselli fondamentali su cui si fonda l’identità collettiva.
È nell’Europa napoleonica che gli indirizzi diventano strumenti di orientamento politico e assumono un significato identitario.
Successivamente – per l’Italia con il Risorgimento – iniziano ad assumere i caratteri ideologici della memoria culturale.
Il cambiamento della toponomastica rientra fra le prime disposizioni dei poteri istituiti, che manifestano la volontà di riallacciarsi a miti fondativi o ad anni zero, a volte inventandoli di sana pianta. Accadde con l’Unità d’Italia, quando alle città del nuovo Regno vennero dispensati ex decreto nomi di eroi e battaglie risorgimentali per creare una comune cartografia di appartenenza.
Nei luoghi con una lingua e una cultura propria ci si aspetterebbe più varietà nei nomi delle strade, ma si è scoperto che non è così scontato: in Sardegna, ad esempio, in età post-Risorgimentale, il cambiamento dell’odonomastica andò di pari passo con i tentativi di creare le basi di continuità e di identificazione “nazionale” con la penisola. In questo quadro, il ruolo della Sardegna nel processo di unificazione italiano, fu enfatizzato e mitizzato, in chiave filopiemontese.
L’impronta sabauda sull’odonomastica a Cagliari è ancora piuttosto evidente: non è un dato di poco conto il fatto che numerose vie e piazze del centro storico siano dedicate ai Savoia.
Nell’immediato dopoguerra, i nomi dei sovrani piemontesi vennero rimossi dalle regioni poco affezionate alla dinastia: è interessante rilevare il fatto che a Cagliari non sia accaduto.
Eppure la città è stata pienamente coinvolta nei moti di dissenso contro i Savoia, prima e dopo lo scommiato dei Piemontesi, nel 1794.
È come se la città avesse dovuto mantenere un’immagine definita: quella di chi ha vinto, di chi ha ripristinato e mantenuto il controllo. Il collegamento con il Piemonte rappresentò, per una parte della classe dirigente sarda, un motivo di prestigio: per la propaganda filosabauda i Savoia avevano offerto alla Sardegna la possibilità di uscire dall’arretratezza, retaggio dell’epoca spagnola.
Di contro, i movimenti popolari che veicolano le istanze rivoluzionarie non convogliarono in un programma di lotta organizzata e politicamente definita, finirono per essere ridimensionati, minimizzati: ancora oggi non sono degnamente raccontati.
La storia non dovrebbe essere il resoconto delle vicende di potere che hanno portato un soggetto politico ad avere la meglio: lo stesso vale per l’odonomastica. In nessuno dei due casi dovrebbero prevalere i riferimenti alle classi o ai gruppi sociali dominanti.
Basterebbe conoscere la storia del rapporto tra i Savoia e la Sardegna, studiarne i passaggi e gli avvenimenti per domandarsi se si possa restare indifferenti dinanzi al fatto che le principali vie del capoluogo sono dedicate a personaggi che hanno pervicacemente oppresso e disprezzato il popolo sardo.
Giuseppe Manno, storico filo-sabaudo, attesta l’avversione di “alcuni dei Piemontesi” verso gli usi e i costumi diffusi in Sardegna, al punto da ipotizzare di impedire i matrimoni “fra l’una e l’altra nazione”. I Savoia erano diventati casa reale a seguito di accordi diplomatici che li costrinsero ad annettere la Sardegna in cambio della Sicilia: il governo piemontese violò costantemente le leggi e i privilegi (l’Isola avrebbe dovuto godere di istituti autonomi garantiti dal Trattato di Londra) che aveva accettato di osservare. Impose un assolutismo dispotico e lo sfruttamento sistematico delle risorse e il mantenimento dei privilegi connessi al sistema feudale che prosperava a costo della miseria del popolo. I sovrani piemontesi attuarono una politica repressiva e violenta contro ogni forma di dissenso, trovando becere giustificazioni ideologiche nella natura delinquenziale dei sardi “poveri, nemici della fatica, feroci e dediti al vizio”. Così scrisse un viceré di Vittorio Amedeo II, l’abate Alessandro Doria del Maro (1724-1726).
I nomi delle strade e delle piazze non sono solo simboli, ma spesso anche sintomi. Sintomi di malattie che affliggono la memoria collettiva: sindromi causate dalla scarsa consapevolezza di sé, da rimozioni e ipocrisie, dal mancato fare i conti con il proprio passato.
Cambiare gli indirizzi non è questione da poco: è complesso e oneroso.
Circa una decina di comuni sardi, a partire dagli anni Settanta e Ottanta, ha iniziato a eliminare i nomi dei Savoia dall’odonomastica: Mamoiada, Scano di Montiferro, Bauladu, Siligo, Galtellì, Orune, Lula. Si trattava di amministrazioni a vocazione indipendentista che vollero coinvolgere la popolazione e gli esercenti interessati: ci vuole una motivazione forte, condivisa e trasversale.
Non basta cavalcare l’onda di un sentimento popolare: non si può prescindere da una forte consapevolezza di cosa rappresentino i nomi che meritano di occupare un posto importante nel contesto urbano. Trasformarlo in chiave identitaria può essere rivoluzionario, ma implica mettersi in cammino, fare un passo ogni giorno per ricucire gli strappi nella memoria, riattivarne i circuiti, alimentarla continuamente.
Allenarsi a leggere lo spazio pubblico anche attraverso l’odonomastica serve a decostruire simboli e significati legati alla cultura dominante, a riappropriarsi non solo dello spazio pubblico nelle proprie città, ma anche del racconto della nostra storia. È uno dei passi che si possono compiere verso la costruzione e la difesa di un’identità nazionale forte, consapevole, calata nel presente e orientata verso il bene collettivo.
Immagine: Paolo Mazzolari