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Perché la vittoria di Todde non può essere considerata una conquista femminista

Dall’inizio della campagna elettorale ai giorni successivi la vittoria di Alessandra Todde si è fatto spesso riferimento a tematiche femministe per sostenere la sua candidatura ed esaltare la sua vittoria alle elezioni regionali in Sardegna del 25 febbraio.

Va riconosciuto a Todde di aver inserito nel suo programma, nella sezione dedicata alle politiche sociali, delle condivisibili considerazioni sulla necessità di contrastare l’aumento delle disuguaglianze”; riconosce poi che ci sia bisogno di sostenibilità, innovazione e cooperazione per una società inclusiva. Servono azioni per combattere la povertà, promuovere l’istruzione, garantire pari opportunità, e sostenere l’integrazione e la partecipazione attiva. Serve un organismo pubblico a tutela delle pari opportunità, dell’educazione alla diversità, è necessario sostenere i Centri Anti Violenza e applicare un approccio sistemico all’integrazione sociale, mirando a una Sardegna equa e solidale”.
L’obiettivo, si legge sempre nel programma, è puntare a “una transizione energetica equa, al mantenimento dell’acqua come bene pubblico, e a una Sardegna che valorizzi la propria identità culturale e linguistica“. 

Inoltre Todde si è rivolta alla comunità LGBTQI+ promettendo di voler rendere la Sardegna una “terra inclusiva, accogliente e che non permette alcuna discriminazione ma fa delle diversità un valore da non sprecare”.

Sembra non mancare nulla in questo quadro di intenti. E allora perchè non si può considerare quella di Todde una conquista femminista?

Perché non si può escludere dal discorso sulla tutela delle minoranze il perpetuarsi di una politica linguistica e culturale che continua a relegare la Sardegna a un ruolo subalterno.
E no, mezza riga su un programma elettorale non è sufficiente: per tirare in ballo i femminismi, per combattere le discriminazioni -o intestarsi l’eredità di Michela Murgia-servirebbe un approccio trasversale.

Quella sarda è una realtà oscura per le persone italiane, (per le quali la Sardegna è una propaggine dell’Italia o un paradiso per le vacanze) e così, alcune persone femministe, attiviste che si autodefiniscono intersezionali, hanno accolto con grande entusiasmo la vittoria di Todde alle elezioni. E hanno criticato Soru per aver “rubato voti al centrosinistra” a causa della vanità maschile, dimostrando di non avere tutti gli elementi per valutare la situazione.

Partiamo da cosa si intende per intersezionalità: significa occuparsi di tutte le forme di oppressione, di tutte le marginalizzazioni. Non è una collezione di lotte, ma un modo di pensare la realtà a partire dalla presa di coscienza e dalla critica delle dinamiche di potere che causano le disparità sociali.
Basterebbe entrare in questa logica per comprendere che quella di Todde non è mai stata una battaglia vicina ai temi dei femminismi.
Affermare pubblicamente che bisognerebbe evitare di parlare di colonialismo in Sardegna, manifesta una posizione netta rispetto a dinamiche storico-culturali attualissime, che si intrecciano con il fenomeno dell’antimeridionalismo, delle quali si può seguire il decorso grazie al materiale divulgativo che è stato prodotto nel tempo.

Il dislivello di potere tra soggetti politici o economici collocati altrove e la realtà locale sarda non è una questione irrilevante o che è possibile continuare a non affrontare.
La conoscenza del patrimonio linguistico e culturale della Sardegna, attualmente, è a carico delle persone (e non sono poche) che scelgono, spesso da adulte, di fare riappropriazione nel momento in cui si accorgono da sole, o perché qualcuno glielo fa notare, di non sapere nulla della storia, dell’archeologia, dell’arte, della lingua, della letteratura del contesto da cui provengono.
Essere socializzati e alfabetizzati solo come individui italiani è una forma di discriminazione, perchè non tutte le persone possono permettersi di dedicare tempo e risorse a recuperare le competenze che non hanno.

È una questione di genere perché, ad esempio, il pregiudizio secondo cui in Sardegna viga il matriarcato impedisce di prendere sul serio quanto sia alto prezzo dell’emancipazione per le donne sarde; è una questione razziale perché da un lato non si sta facendo abbastanza per sostenere e valorizzare l’integrazione delle persone immigrate (cosa che invece avrebbe un enorme potenziale di sviluppo), e dall’altro non si contrastano i fenomeni di razzializzazione dei sardi nel linguaggio, e non solo.
Sul quotidiano “La Repubblica”, qualche mese fa, di Renato Soru è stato scritto che ha tenuto un comizio in “dialetto stretto”. Per descrivere la dialettica tra forze politiche che si sono proposte all’elettorato si è scelto il termine “faida”.
Non è infrequente che, per raccontare fatti di cronaca avvenuti in Sardegna, al posto della parola “rapinatori” si preferisca usare il termine “banditi”. Sono solo pochi esempi dai quali si evince un atteggiamento razzista e classista che non si limita purtroppo a pochi casi isolati.

È una questione di classe perché le disuguaglianze economiche stanno svuotando i territori e stanno causando un’emigrazione di massa di cui si sottovalutano le conseguenze, narrate spesso come connesse a stereotipi e pregiudizi come quello dell’arretratezza come fosse un tratto connaturato al contesto sardo (o del Sud Italia).

Genere, razza, classe: collegare questi elementi è la sostanza del metodo di critica e analisi dei femminismi che si definiscono intersezionali o multidimensionali, per misurare lo stato di salute di una società.
Per analizzare i contesti servono codici di lettura: la Sardegna è relativamente poco conosciuta ai suoi stessi abitanti, quindi forse non è lecito aspettarsi, da parte di chi la osserva da fuori, lo sforzo di cogliere le complessità che ne caratterizzano il contesto.
È doveroso, però, sottolineare la mancata volontà di andare oltre, di ascoltare, di leggere il reale al di là di un’interpretazione limitata dalla scarsa conoscenza, secondo la quale la scissione della coalizione sarda sarebbe da ricondurre alla vanità maschile. È doveroso far notare che questo atteggiamento somiglia molto a quello paternalistico con il quale alcuni uomini pretendono di spiegare alle donne ciò che dovrebbero fare o pensare sulla base del fatto che pensano di saperla più lunga.

C’è senz’altro bisogno di portare la prospettiva transfemminista nel sistema di pensiero decoloniale che riguarda la Sardegna, ma occorre farlo dall’interno, partendo da una conoscenza profonda del contesto e liberandosi, prima di tutto, dallo sguardo esterno che abbiamo assimilato e del quale spesso siamo inconsapevoli.


La foto di copertina è di Alessandro Serrano’ AGF presa da agi.it/

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