Produzioni artigianali, grandi marchi: mercificazione dell’identità. Opportunità o appropriazione culturale?

de Federica Marrocu

Dolce e Gabbana ha scelto la Sardegna per l’evento d’alta moda “Grand Tour d’Italia”, che – si legge sull’Unione Sarda– “da dodici anni fa conoscere nel mondo le più belle località della penisola in un riuscito mix di fashion, glamour e tradizioni locali”.

L’evento si svolge dall’1 al 4 luglio: tra le location designate vi sono il sito archeologico di Nora e il noto resort di lusso Forte Village a Pula.

In un reel promozionale pubblicato sulla pagina Instagram di D&G, il marchio della nota casa di moda accompagna, assieme alla dicitura “made in Italy”, le immagini di abiti e prodotti tradizionali della Sardegna.

Il riconoscimento da parte di soggetti di caratura internazionale costituisce una fonte di orgoglio: vi si associa il concetto di prestigio, ma anche di omaggio. Sono diversi i contesti in cui il patrimonio culturale materiale e immateriale diventa un brand: funziona come un marcatore di qualità. È al centro di molteplici interessi con un raggio che va dalla dimensione locale a quella internazionale: il punto del ragionamento critico che qui si vuole fare non è rivolto agli artigiani del posto, o alle persone sarde che hanno partecipato agli eventi in abito tradizionale, né si intende stigmatizzare la scelta della Sardegna come location, ma a questioni di più ampio respiro (come ad esempio l’utilizzo dei siti archeologici per eventi privati di lusso).

Le produzioni artigianali sono un elemento riconosciuto come identitario.

Portano con sé una storia, legata al luogo in cui sono prodotte. L’ambiente tecnico artigianale custodisce saperi, abilità, valori in un mondo dominato dalla produzione di beni destinati a un consumo di massa.
I prodotti locali possono essere considerati oggetti culturali e sono dotati di una forte carica affettiva e simbolica.

Per quanto l’alta gioielleria appartenga alla produzione artigianale isolana, bisogna ricordare e sottolineare che la selezione operata per l’occasione non rappresenta la cultura sarda in toto, ma una parte di essa. Quella delle classi privilegiate.

Viviamo in un’epoca in cui tutto è una potenziale merce. Quello sulla valorizzazione non è però solo un discorso economico, ma anche politico perché risulta utile alla costruzione di un’identità nazionale.

Ma quale nazione?

La Sardegna è fortemente connotata da un punto di vista culturale: a fare dei suoi abitanti un popolo sono, oltre ai confini geografici, una lingua comune, tradizioni, radici storiche. Da quando lo stato italiano è stato costituito la Sardegna subisce, come tutto il resto del territorio, un processo di acculturazione finalizzato a costruire l’identità nazionale italiana, che prima del XIX secolo non esisteva. Tali processi sono sempre in atto: sono diventati soltanto sempre più impliciti e normalizzati (il “nazionalismo banale” teorizzato dallo studioso Michael Billing).

Apponendo il termine “italiano” o “made in Italy” al patrimonio monumentale o immateriale sardo, di fatto, si normalizza (o banalizza) l’integrazione della cultura sarda in quella italiana.

Nel panorama dei luoghi, oggetti e pratiche da “valorizzare” entrano in gioco soggetti esterni che scelgono cosa far emergere, cosa patrimonializzare. Gli interessi intorno all’artigianato locale sono molteplici e fanno leva su un immaginario che asseconda l’ossessione per il tipico, riflesso delle sempre più diversificate necessità di mercato. In quest’ottica il beneficio di immagine che deriva dal “fatto a mano”, dall’ “autenticità” è notevole.

Per le minoranze la specificità culturale è una forma di resistenza, ma, entro una dinamica di squilibrio di potere, può essere esposta a pratiche più o meno latenti di strumentalizzazione.

Ad esempio, elementi tradizionali di minoranze possono diventare oggetto di appropriazione culturale che si verifica quando una cultura dominante li decontestualizza e ne trae vantaggio economico, ma anche di immagine (succede con le acconciature, con gli abiti, con accessori e altro). Si tratta di una dinamica di potere agita a scapito dei diritti della popolazione o della comunità che la subisce.

Quando il patrimonio culturale materiale o immateriale che sia viene sfruttato da altri quel popolo subisce un danno. I diritti delle minoranze sono sempre quelli più a rischio.

Sulle criticità dello sfruttamento dei siti culturali per eventi privati per eventi di lusso mi limito a constatare il fatto che ad essere lesi sono quasi sempre i diritti delle comunità, le quali subiscono, in diversi contesti, dinamiche di esclusione ed espropriazione a favore di élite privilegiate o di un non bene identificato interesse pubblico in chiave universalistica. La questione è complessa e pone problemi di carattere sociale, etico, culturale e ha a che fare con la mercificazione dei luoghi di rilevanza storica, archeologica e culturale in genere. Sul sito si è intervenuto con scenografie e allestimenti: non esistono solo delle regole e dei vincoli di tutela, ma anche delle problematiche relative all’occupazione di quegli spazi, alle modalità con cui si fa, specie quando di mezzo c’è l’accostamento di marchi e di capitali. Si tratta di un modello in crescita, giustificato anche dalla scarsità di fondi e dalle difficoltà di gestione dei beni culturali, che fa cedere al ricatto della privatizzazione. 

Un aspetto non sufficientemente dibattuto, infine, è quello della proprietà intellettuale di una comunità riguardo ai frutti del proprio “autentico”.

Siamo quindi sicurə che “opportunità” sia la parola giusta per descrivere questo genere di situazioni?
Cosa si sta trasmettendo della Sardegna?
E soprattutto, chi ci guadagna davvero?



Fonti principali: Helaine Silverman Patrimonio e autenticità; Duncan Light Patrimonio e turismo; Franco Lai Spazi locali spazi globali; Oscar Salemink Antropologie del patrimonio culturale
Credit Foto Paolo Mazzolari

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